RECENSIONI
Carla Ammannati
La guaritrice di Ventotene
Meridiano Zero, Pag.188 Euro 13,00
Lo confesso, più che la vicenda sinteticamente raccontata nel risvolto di copertina, il motivo che mi ha fatto accostare a questo libro è stata la dedica che l'autrice pone all'inizio del romanzo: alla memoria, a me molto cara, di Eugenio Colorni, Camilla Ravera, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, confinati a Ventotene.
Non vorrei essere poco urbano se escludo gli altri, ma mi vorrei soffermare di più su Ernesto Rossi. Come spesso si suol dire: con lui mi son formato le ossa. E vederlo riapparire, come se fosse davvero un'epifania improvvisa, anche solo su un'intestazione, mi ha fatto immediatamente ricordare gli studi fatti su di lui, il suo essere antifascista, il suo essere federalista e il suo essere anticlericale. Come non possiamo avere nostalgia di un uomo come quello in un presente sempre più oscuro, sempre più confessionale, sempre meno ideologico?
Dunque Ernesto Rossi come molla propulsiva per un romanzo che a prima vista avrei collocato in quella sorta di limbo, non sempre felice, in cui si 'agita' una letteratura lontana dai sommovimenti tellurici della post-modernità, o comunque da quell'attualità che tutti noi subiamo giorno dopo giorno.
Ho detto: a prima vista avrei collocato. Sì, perché poi ogni storia, permettetemi il bisticcio, è una storia a sé. E dunque anche La guaritrice di Ventotene lo è.
Il romanzo è strutturato a più piani, che a volte s'intersecano e non sempre il lettore ha la possibilità di afferrare al primo cambio le sfumature dell'alternanza e dell'avvicendamento. Perché in effetti la storia di Zina la zoppa che perde un figlio ancora piccolo e che subisce il fascino di Pacifico, antifascista confinato a Ventotene e dal quale avrà a sua volta una figlia, e quella di Sili, la figlia appunto, che viene a sapere di avere un fratello nato dallo stesso padre, si mischia a volte anche audacemente, non per strappi alla coerenza narrativa, ma per, come si diceva prima, cambi prospettici che a volte sbilanciano il lettore.
Si dirà: poca cosa. Vero. La lettura del romanzo della Ammannati ci restituisce per un po' il sapore delle vecchie cose, che per carità non è la muffa di una letteratura che la si vuole 'alta', ma che in realtà non si è mai affrancata dalla lezione dei grandi e dal quel neorealismo culturalmente pervasivo che qualcuno comincia, di questi tempi, a ritenere traboccante. No, è il sapore di una scrittura sapientemente moderata, piana nella sua lineare responsabilità.
Non so perché ma leggendo questa storia mi sono venuti spesso in mente i romanzi della Elena Ferrante. Qualcuno obietterà che le intenzioni sono diverse, che le modalità sono diverse (forse, ma L'amore molesto, in qualche modo, lo vedo imparentato con questo): probabile, ma c'è un quid che accomuna le due scrittrici, senz'altro lo stile essenziale e rigoroso, che ai miei occhi di lettore ne determina una consanguineità.
Non aggiungerei altro. Anzi sì una cosa mi preme dirla: sulla copertina. In genere non mi soffermo su questi dettagli, ma stavolta va aggiunto che è davvero brutta. Se il sottoscritto ha avuto il buon senso di andare oltre ed 'incappare' nel riferimento a Ernesto Rossi che lo ha illuminato, un semplice acquirente di libreria, di fronte a una bruttura del genere, potrebbe ritrarsi. Sarebbe un peccato. La Ammanniti, nonostante qualche 'aggravio' di troppo, va educatamente letta.
di Alfredo Ronci
Non vorrei essere poco urbano se escludo gli altri, ma mi vorrei soffermare di più su Ernesto Rossi. Come spesso si suol dire: con lui mi son formato le ossa. E vederlo riapparire, come se fosse davvero un'epifania improvvisa, anche solo su un'intestazione, mi ha fatto immediatamente ricordare gli studi fatti su di lui, il suo essere antifascista, il suo essere federalista e il suo essere anticlericale. Come non possiamo avere nostalgia di un uomo come quello in un presente sempre più oscuro, sempre più confessionale, sempre meno ideologico?
Dunque Ernesto Rossi come molla propulsiva per un romanzo che a prima vista avrei collocato in quella sorta di limbo, non sempre felice, in cui si 'agita' una letteratura lontana dai sommovimenti tellurici della post-modernità, o comunque da quell'attualità che tutti noi subiamo giorno dopo giorno.
Ho detto: a prima vista avrei collocato. Sì, perché poi ogni storia, permettetemi il bisticcio, è una storia a sé. E dunque anche La guaritrice di Ventotene lo è.
Il romanzo è strutturato a più piani, che a volte s'intersecano e non sempre il lettore ha la possibilità di afferrare al primo cambio le sfumature dell'alternanza e dell'avvicendamento. Perché in effetti la storia di Zina la zoppa che perde un figlio ancora piccolo e che subisce il fascino di Pacifico, antifascista confinato a Ventotene e dal quale avrà a sua volta una figlia, e quella di Sili, la figlia appunto, che viene a sapere di avere un fratello nato dallo stesso padre, si mischia a volte anche audacemente, non per strappi alla coerenza narrativa, ma per, come si diceva prima, cambi prospettici che a volte sbilanciano il lettore.
Si dirà: poca cosa. Vero. La lettura del romanzo della Ammannati ci restituisce per un po' il sapore delle vecchie cose, che per carità non è la muffa di una letteratura che la si vuole 'alta', ma che in realtà non si è mai affrancata dalla lezione dei grandi e dal quel neorealismo culturalmente pervasivo che qualcuno comincia, di questi tempi, a ritenere traboccante. No, è il sapore di una scrittura sapientemente moderata, piana nella sua lineare responsabilità.
Non so perché ma leggendo questa storia mi sono venuti spesso in mente i romanzi della Elena Ferrante. Qualcuno obietterà che le intenzioni sono diverse, che le modalità sono diverse (forse, ma L'amore molesto, in qualche modo, lo vedo imparentato con questo): probabile, ma c'è un quid che accomuna le due scrittrici, senz'altro lo stile essenziale e rigoroso, che ai miei occhi di lettore ne determina una consanguineità.
Non aggiungerei altro. Anzi sì una cosa mi preme dirla: sulla copertina. In genere non mi soffermo su questi dettagli, ma stavolta va aggiunto che è davvero brutta. Se il sottoscritto ha avuto il buon senso di andare oltre ed 'incappare' nel riferimento a Ernesto Rossi che lo ha illuminato, un semplice acquirente di libreria, di fronte a una bruttura del genere, potrebbe ritrarsi. Sarebbe un peccato. La Ammanniti, nonostante qualche 'aggravio' di troppo, va educatamente letta.
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