RECENSIONI
Alberto Arbasino
La vita bassa
Adelphi Biblioteca Minima , Pag. 112 Euro 5,50
La vita bassa, che uno, poi, ma dove lo andava a trovare un modo migliore per capire i veri motivi, l'essenza e quintotale, della crisi economica e politica di questo paese qui tanto per dire?
Il tenore basso, è chiaro ora, viene tutto da questo modo di tenere i pantaloni, da questo sfoggio di sederi fiacchi e flosci (non "il mio dio" che "se ne va in bicicletta/ o bagna il muro con disinvoltura" di Sandro Penna); la nostrale miseria viene tutta da questa orribile noia di un popolo lì a divertirsi al telecine, al fast o slow food che sia, al pomeriggio pigro all'outlet con colonne corinzie o alla fiera del tartufo tutto d'oro per palati fini con il mignolo che svetta: che tutto insieme fa la causa necessitante del sederone ornato a bandoni, striminziti quindi tutto risparmio, di vita bassa.
La vita bassa, capitolo di un libro perenne e infinito, viaggio petroniano fra Roma e Bisanzio a fare sfogare l'ultimo canto ad un paio di lingue morenti (quella che parlano i Taliani di Gadda e i greci di questa Grecia baldracca, dixit D'annunzio): un libro con questa Italia non per oggetto, ma per genere letterario.
E almeno questo ci rimane, di essere un genere letterario, ricco e tutto da esportazione. Infatti: l'Italia sempre così seria da fare ridere; la patria del trombone; del poveraccio imperitura che ha tutta un'arte per nascondere di non avere più la cravatta e di fingersi il più assassino e ladro (maledetto rinascimento!) per non dare a vedere che gli hanno tolto il portafogli come a un fesso mentre si chinava ad accattare gli spicci a terra; il paesotto delle piccole questioni modeste, ma chiamate tipo par condicio (perché tutti o masticamo un po' d'inglese. È inglese, no?) e pari opportunità e quote di ogni colore (una vera fissazione nevrotica per le ripartizioni ossessive): e poi mafia, camorra e pizza giù fino al riciclo di carta, e all'esplorazione di vaste latitudini dei diritti innati, acquisiti e perfino d'autore; e, infine, l'Italia degli scrittori italiani che ancora discutono di quale debba essere il genere letterario che meglio ci rappresenti, o che rappresenti (ci piace dire certe parole) il meglio in assoluto: l'Assoluto: e Arbasino che ce lo mostra che siamo noi, noi tutti quanti, un genere letterario, assoluto.
E infatti: E se la vita bassa, per i prossimi Lévi-Strauss, diventasse un Segno antropologico tribale ed elettorale non solo giovanile, in un Musée de l'Homme con foto di addomi e posteriori di fronte e profilo?
La vita bassa può diventare questo Segno, ovvio, come il Segno linguistico lasciato da Arbasino può essere, ed è, una chiave che poterebbe permettere alla nostra letteratura, a ciò che immaginiamo di essere, di riverberare al di là delle poche frasi fatte del nostro quotidiano (al di là dello stereotipo da lingua che ne traduce, male, non so quale altra, che ci siamo inflitti); di riverberare, magari rifulgere, nel caleidoscopio di tutti i nostri dialetti letterari; quelli che, da Basile a D'annunzio, da Parini a Gadda, e nutrita schiera attorno, hanno saputo guardarci con maggiore fantasia: e migliore operazione civile e politica, economica, di questo immaginarci di nuovo non ci potrebbe essere offerta.
Lo sfottò, l'irrisione, la satira, che da decenni, con tono di giaculatoria, canta Arbasino, poeta che scaglia maledizioni, temibilissimo, è questa offerta: il dono delicatissimo di una macchina perfettamente autonoma, perfettamente letteratura quale è il suo memoriale permanente, la sua lingua leggera, spumosa, facile ed irresponsabile, barocca e immaginosa.
Si vanterebbe Nonno da Panopoli: screziata.
di Pier Paolo Di Mino
Il tenore basso, è chiaro ora, viene tutto da questo modo di tenere i pantaloni, da questo sfoggio di sederi fiacchi e flosci (non "il mio dio" che "se ne va in bicicletta/ o bagna il muro con disinvoltura" di Sandro Penna); la nostrale miseria viene tutta da questa orribile noia di un popolo lì a divertirsi al telecine, al fast o slow food che sia, al pomeriggio pigro all'outlet con colonne corinzie o alla fiera del tartufo tutto d'oro per palati fini con il mignolo che svetta: che tutto insieme fa la causa necessitante del sederone ornato a bandoni, striminziti quindi tutto risparmio, di vita bassa.
La vita bassa, capitolo di un libro perenne e infinito, viaggio petroniano fra Roma e Bisanzio a fare sfogare l'ultimo canto ad un paio di lingue morenti (quella che parlano i Taliani di Gadda e i greci di questa Grecia baldracca, dixit D'annunzio): un libro con questa Italia non per oggetto, ma per genere letterario.
E almeno questo ci rimane, di essere un genere letterario, ricco e tutto da esportazione. Infatti: l'Italia sempre così seria da fare ridere; la patria del trombone; del poveraccio imperitura che ha tutta un'arte per nascondere di non avere più la cravatta e di fingersi il più assassino e ladro (maledetto rinascimento!) per non dare a vedere che gli hanno tolto il portafogli come a un fesso mentre si chinava ad accattare gli spicci a terra; il paesotto delle piccole questioni modeste, ma chiamate tipo par condicio (perché tutti o masticamo un po' d'inglese. È inglese, no?) e pari opportunità e quote di ogni colore (una vera fissazione nevrotica per le ripartizioni ossessive): e poi mafia, camorra e pizza giù fino al riciclo di carta, e all'esplorazione di vaste latitudini dei diritti innati, acquisiti e perfino d'autore; e, infine, l'Italia degli scrittori italiani che ancora discutono di quale debba essere il genere letterario che meglio ci rappresenti, o che rappresenti (ci piace dire certe parole) il meglio in assoluto: l'Assoluto: e Arbasino che ce lo mostra che siamo noi, noi tutti quanti, un genere letterario, assoluto.
E infatti: E se la vita bassa, per i prossimi Lévi-Strauss, diventasse un Segno antropologico tribale ed elettorale non solo giovanile, in un Musée de l'Homme con foto di addomi e posteriori di fronte e profilo?
La vita bassa può diventare questo Segno, ovvio, come il Segno linguistico lasciato da Arbasino può essere, ed è, una chiave che poterebbe permettere alla nostra letteratura, a ciò che immaginiamo di essere, di riverberare al di là delle poche frasi fatte del nostro quotidiano (al di là dello stereotipo da lingua che ne traduce, male, non so quale altra, che ci siamo inflitti); di riverberare, magari rifulgere, nel caleidoscopio di tutti i nostri dialetti letterari; quelli che, da Basile a D'annunzio, da Parini a Gadda, e nutrita schiera attorno, hanno saputo guardarci con maggiore fantasia: e migliore operazione civile e politica, economica, di questo immaginarci di nuovo non ci potrebbe essere offerta.
Lo sfottò, l'irrisione, la satira, che da decenni, con tono di giaculatoria, canta Arbasino, poeta che scaglia maledizioni, temibilissimo, è questa offerta: il dono delicatissimo di una macchina perfettamente autonoma, perfettamente letteratura quale è il suo memoriale permanente, la sua lingua leggera, spumosa, facile ed irresponsabile, barocca e immaginosa.
Si vanterebbe Nonno da Panopoli: screziata.
di Pier Paolo Di Mino
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Alberto Arbasino
L'ingegnere in blu
Adelphi, Pag.186 Euro 11,00Se non fossi blasfemo direi che L'Ingegnere in blu potrebbe essere racchiuso tra due espressioni. La prima: Su! Su! Allez hop! Qui si dà il culo, o si muore! (Pag.14). La seconda: Torna a fiorir la rosa (Pag. 60), strofa d'apertura dell'ode di Parini dedicata a Giancarlo Imbonati.
E va spiegato il perché: l'arte di Arbasino consiste proprio in questo, nel derisorio eclettismo che sfocia nel gergale e nella cosmopolita eleganza che lo rende unico ed insostituibile. Una sorta di, come direbbe lui stesso di sé, apprenti sorcier, alla prese con la materia più duttile in assoluto: la letteratura.
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