RECENSIONI
Carlo D'Amicis
Escluso il cane
Minimum fax, Pag.257 Euro 11,50
Questa è una storia catalogabile nel settore culo e quarant'ore. Nel senso che le articolazioni dell'impianto del libro sfiorano temi quali la Verità, la Fede, la Ragione, la Giustizia, il Dolore, nel loro rapporto con l'Essere Umano e l'essere umani, anche negli aspetti più corporei, fino al corpo sciolto (il protagonista è incontinente, oltre che frocio e impotente - e giòcati 'sta tris!) e alle citazioni da Rino Gaetano. I caratteri che D'Amicis fa agire - principali: un avvocato, un medico - hanno per mestiere occasione quotidiana di confrontarsi con le radici terrene (la colpa, il delitto, la malattia, la religiosità) degli Assoluti che elenco al principio di questo pezzullo. E lo fanno in media con un linguaggio di passabile quotidianità, dimodoché non si cade nell'affanno monumentale da Grandi Interrogativi che identifica il midcult, da Pearl S.Buck a Baricco. Pregio questo al quale l'Autore talvolta rinunica, cadendo in dialoghi da telefilm, (vedi p. 89) o spiccando salti per appendersi agli anelli metafisici che dissemina nel testo: (ivi, e passim) ma chi sale in alto, si scopre il culo o cade sovente.
Così, il romanzo magari ha motivi d'interesse (primo: discutere di materie superne tralasciando don Camilli e Pepponi, Testori e Coccioli - ma purtroppo non avendo memoria di Sergio Givone e della sua Favola delle cose ultime (Einaudi)), e gli agonisti, sebbene poco delineati e schematici, sono strambi (un husky di nome Dolore, figlie di notai e dietologhe ayurvediche, neo-fricchettone con sorcio al guinzaglio, bòni migràtti di Romènia) o insoliti - c'è anche un papa morente che dubita dell'esistenza di Dio, e qua e là da un angolo Marzullo fa cucù-tétté - per generare una tiepida voglia di proseguire nella lettura. Alla quale avrebbe giovato un robusto intervento redazionale, cassando almeno cento pagine: perché si parla, si parla, si parla "a spiovere", ma si conclude poco. Non (solo) dal punto di vista della trama, proprio da quello espressivo. Non dico tanto: ma a rileggersi Romain Gary o Pergaud, o Meneghello, c'è un'invenzione linguistica ad ogni pagina. Capisco che non si può passare la vita a rifarsi a piccoli maestri o a più alti modelli - però, che cazzo! Se no, si fa come la Tamaro secondo Luttazzi: s'introduce una locuzione - e. g. "all'improvviso" o "d'un tratto" - che faccia da suoneria di sveglia, così da evitare colpi di sonno che possano far cappottare sull'autostrada narrativa.
Vero è che, a fianco di uscite che fan dire "io per primo mi perplìmo" (la "bizzarra uretra" di p. 99), l'Autore ha momenti di bella tenuta: l'amante maschio dell'avvocato gli rimprovera "basterebbe che a questa cretinata del rispetto sostituissi un gesto d'amore. Alla paura di sporcare, il coraggio di prendere la spugnetta"; (p. 106) e si confessa: "E' terribile arrivare a detestare chi si affanna ad amarti". (p. 123) Intendiamoci: anche a me può piacere (in letteratura) una definizione quale "bizzarra uretra", ma in una pagina che abbia un impasto, una densità, tali ch' essa vi si incastoni come i tasselli di legno nei templi giapponesi, senza sentire le giunzioni o percepire il diverso pigmento - anche se squilla. Mentre battute come le dette sono ben elaborate e dunque elevano e variano il tono del testo (come in una conversazione fa una sottolineatura ironica), senza comprometterne la struttura, mantenendone la continuità, mancando di fare il passo più lungo della gamba, o di mettersi a parlare nell'abitacolo di un'utilitaria con un megafono per cori e masse.
Malgrado ciò e l'altezza cattivante dei temi, comunque, il libro non decolla. Si ha l'impressione, l'ho segnalato, che vi sia troppa zavorra, che l'Autore cincischi e traccheggi, e si perda in situazioni e dettagli che, invece di incidere meglio le sue figure, dàndo loro quelle ombre e quelle luci che fanno corpo, le diluiscano scorporandole. Insomma che questa sua prova - non ho letto le precedenti, e sono numerose - abbia colpito un po' più in alto o un po' più in basso i suoi bersagli. Ma, ricordava Verdi di Manzoni, al tiro tutto sta a beccare il centro.
di Vera Barilla
Così, il romanzo magari ha motivi d'interesse (primo: discutere di materie superne tralasciando don Camilli e Pepponi, Testori e Coccioli - ma purtroppo non avendo memoria di Sergio Givone e della sua Favola delle cose ultime (Einaudi)), e gli agonisti, sebbene poco delineati e schematici, sono strambi (un husky di nome Dolore, figlie di notai e dietologhe ayurvediche, neo-fricchettone con sorcio al guinzaglio, bòni migràtti di Romènia) o insoliti - c'è anche un papa morente che dubita dell'esistenza di Dio, e qua e là da un angolo Marzullo fa cucù-tétté - per generare una tiepida voglia di proseguire nella lettura. Alla quale avrebbe giovato un robusto intervento redazionale, cassando almeno cento pagine: perché si parla, si parla, si parla "a spiovere", ma si conclude poco. Non (solo) dal punto di vista della trama, proprio da quello espressivo. Non dico tanto: ma a rileggersi Romain Gary o Pergaud, o Meneghello, c'è un'invenzione linguistica ad ogni pagina. Capisco che non si può passare la vita a rifarsi a piccoli maestri o a più alti modelli - però, che cazzo! Se no, si fa come la Tamaro secondo Luttazzi: s'introduce una locuzione - e. g. "all'improvviso" o "d'un tratto" - che faccia da suoneria di sveglia, così da evitare colpi di sonno che possano far cappottare sull'autostrada narrativa.
Vero è che, a fianco di uscite che fan dire "io per primo mi perplìmo" (la "bizzarra uretra" di p. 99), l'Autore ha momenti di bella tenuta: l'amante maschio dell'avvocato gli rimprovera "basterebbe che a questa cretinata del rispetto sostituissi un gesto d'amore. Alla paura di sporcare, il coraggio di prendere la spugnetta"; (p. 106) e si confessa: "E' terribile arrivare a detestare chi si affanna ad amarti". (p. 123) Intendiamoci: anche a me può piacere (in letteratura) una definizione quale "bizzarra uretra", ma in una pagina che abbia un impasto, una densità, tali ch' essa vi si incastoni come i tasselli di legno nei templi giapponesi, senza sentire le giunzioni o percepire il diverso pigmento - anche se squilla. Mentre battute come le dette sono ben elaborate e dunque elevano e variano il tono del testo (come in una conversazione fa una sottolineatura ironica), senza comprometterne la struttura, mantenendone la continuità, mancando di fare il passo più lungo della gamba, o di mettersi a parlare nell'abitacolo di un'utilitaria con un megafono per cori e masse.
Malgrado ciò e l'altezza cattivante dei temi, comunque, il libro non decolla. Si ha l'impressione, l'ho segnalato, che vi sia troppa zavorra, che l'Autore cincischi e traccheggi, e si perda in situazioni e dettagli che, invece di incidere meglio le sue figure, dàndo loro quelle ombre e quelle luci che fanno corpo, le diluiscano scorporandole. Insomma che questa sua prova - non ho letto le precedenti, e sono numerose - abbia colpito un po' più in alto o un po' più in basso i suoi bersagli. Ma, ricordava Verdi di Manzoni, al tiro tutto sta a beccare il centro.
di Vera Barilla
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Carlo D'Amicis
La guerra dei cafoni
Minimum fax, Pag.226 Euro 13,00Lo confesso, non ho letto i precedenti romanzi di D'amicis, quindi mi sono avvicinato a lui come ci si avvicina a un piatto di tagliolini coi fagioli, nel senso che è una portata non sempre facile da fare, abbisogna di mani esperte e spesso il risultato è sciocco (nel senso siciliano del termine, sciapo).
D'amicis ha ambientato la storia nel 1975, ma siccome io sono pignolo e per certi versi piantagrane, puntualizzo che in realtà, nonostante si giochi duro, l'autore l'ha voluta collocare negli 'anni settanta'.
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