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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Tommaso Labranca

78.08

Excelsior 1881, Pag. 278 Euro 16,50
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Labranca .08 è un artista satirico di primo livello: uno scrittore capace di rappresentare il cortocircuito generazionale tra il 1978 e il 2008 in un amarissimo divertissement, tra nostalgie di quel che era e fredde constatazioni di quel che è, di quel che sta succedendo: e allucinanti congetture sul nebuloso futuro che ci attende – non è un caso, forse, se sono ben quattro i diversi finali proposti. Il gioco si fonda sul parallelismo tra le esistenze di Antonio Maniero, ricercatore universitario, doppiolavorista (in una desolata struttura para-Cepu), divorziato, figlia e madre sul groppone – moglie andata, lobotomizzata dal lato oscuro del tubo catodico Ottanta-Novanta – e di sua figlia Laurapalmer (sic: mater voluit), classe 1991. Un panda, truccata gotica, alienata da ogni aspetto ludico e parasociale dei nuovi media, viziata e manesca.

Amichetta compulsiva, e teledipendente.

Labranca ha saputo interpretare il nostro tempo prendendosene gioco con disinvoltura: l'io narrante è un capolavoro di autoironia, dissacra se stesso e tutto il resto del mondo come niente fosse, anaffettivo e cinico, d'onesta estrazione piccolo borghese e caotica adozione di tutte le nuove tecnologie. Tecnologie che servono per leggere i caratteri fondanti della nostra stravagante e infelice Italia contemporanea: bancomat e carte di credito utilizzati con eccessiva disinvoltura, perdendo il polso della quantità di denaro speso; messenger e skype che surclassano il vezzo freak del baracchino, loghi sbiaditi e suonerie raglianti che vanno a prosciugare il budget degli adolescenti. E ancora, iPod estranei alla doppia presa per la cuffia, già presente nei nostri vecchi walkman, a suggerire l'uso personale e dissociante del dispositivo; home cinema a cancellare l'esperienza collettiva del cinema, e via dicendo.

Tra 78 e 08 ne è passata di acqua sotto i ponti. E a quale velocità. A quale prezzo. Secondo Labranca, l'obiettivo principale nello .08 è la pseudorealtà. Non la finzione dichiarata dei teatri d'opera, ma la realtà ricostruita dagli architetti d'interni, dagli editor delle grandi case editrici, dai montatori televisivi (pag. 61). Assieme, evidenzia la negazione della propria identità, prendendosi gioco, ad esempio, delle grottesche manie alimentari della nuova generazione, della proliferazione di kebab, ristoranti cinesi e giapponesi a danno delle nostre splendide antiche abitudini, e dei loro ridotti costi, aggiungo – e della loro ben diversa qualità. La cieca xenofilia è stupida.

È il libro di un nostalgico di classe. Un intellettuale frastornato dalla frenesia, dall'ipocrisia e dagli automatismi del nostro tempo, precario in ogni aspetto della sua esistenza, professionale e famigliare, lucido tuttavia e sgombro di pregiudizi ideologici. Finalmente, e totalmente: come un tempo – dico, nel .78 – in questo benedetto assurdo belpaese non si poteva essere. Per evitare vessazioni, e disoccupazione.

Ricordo tutto questo con freddezza, senza più alcun risentimento verso le due parti che si divertivano a vessarmi perché non ero stato in grado di scegliere se stare con Tony (Manero) o Toni (Negri).

Perché non sapevo se alzare il braccio destro per puntare l'indice contro il cielo o quello sinistro per simulare una pistola. Perché allora, come oggi, nel dubbio ho sempre alzato entrambe le braccia.

Per arrendermi
(pag. 208).

Già, perché un altro dei giochi del romanzo è l'associazione – sin dal nome – tra Antonio Maniero e quel Tony Manero de La Febbre del Sabato Sera che spopolava giusto trent'anni fa. Altro atipico e anomalo working class hero, pure nella dimensione della discoteca, oggetto di emulazione planetaria, condanna il suo quasi omonimo italiano – padovano: sin dal nome – a un'esistenza involontaria e paradossalmente mimetica. E così, nel 2008, Antonio prova a decifrare gli eventi e gli incontri della sua vita sulla base (anche) delle reminiscenze di quel film, meditando sulla sua fortuna d'antan e sugli aspetti seminali dell'opera. I titoli dei capitoli – segnalo, a latere – sono divertiti omaggi ai Bee Gees.

È l'occasione per una serie di riflessioni sull'abominio del fashionismo coevo, del dominio indiscusso di griffe e sull'accavallarsi di tendenze sempre più artificiose e coatte. D'altra parte, L'orbita del cool ha un periodo di rotazione di venti anni. Ciò che oggi è al Punto di Esaltazione tramonterà presto e tra dieci anni esatti si troverà al Punto di Derisione per poi risalire lentamente e tornare, tra altri dieci anni, all'esaltazione. Poi si abbandonerà alla forza centrifuga, uscirà dall'orbita del cool ed entrerà nel cielo degli eventi fissi.

Ecco perché dieci è noia, venti è moda, trenta è storia
(pag. 123).

Possibile che il dialogo tra la generazione di Antonio e quella di sua figlia sia così frammentario e sghembo, considerando che non dovrebbe esistere, tecnologie e alimentazione a parte, quello strapiombo che separava i nostri padri dai loro padri? Labranca è ben consapevole che i punti di contatto siano decisamente maggiori, e che una certa percezione delle problematiche e dei guasti della società postindustriale, o semplicemente delle sue peculiarità, non possa scavare certi solchi. Queste radici sono la televisione, il pop, la plastica, i miti mediatici, le apparecchiature elettroniche, la socializzazione complessa, la riduzione delle distanze, i cibi malsani, l'anglofonia, la musica (p. 40).

Giustamente intollerante nei confronti della profonda impreparazione e della insensata spocchia dei nuovi adolescenti, si infuria ad esempio – e il lettore gode – quando sente ciarlare di falsetti come tratto distintivo della musica anni Ottanta da mostruosi figli di papà, pierre di localini fighetti che organizzano immondi party erasmus per i ritornanti idioti studentelli italioti. È potente la percezione di ignoranza e inadeguatezza dei fan dei Tokyo Hotel, e del loro mondo estraneo alla consapevolezza che certo sound e certa estetica viene da qualche decade prima. Che è tutta roba rimasticata.

E di letteratura, naturalmente, è meglio non parlare. C'è qualche richiamo qua e là, non serve nome e cognome, a chi ha fatto danni distendendosi prono all'era della riproduzione seriale della medietà, spacciando il suo niente ben confezionato per arte: ma naturalmente il malessere di Maniero è rivolto, in primis, a quei cittadini che hanno avallato la circolazione di certi libri. Senza livore, però, senza cattiveria. Stizza, sì. Legittima.

Infine, a chi ancora guarda al mondo dell'editoria con l'occhio bovino di chi invidia i suoi tanti e ricchi mestieri, piacerà prendere nota della disperata attesa di un bonifico per la traduzione d'un libro mediocre: Maniero va di bancomat in bancomat, capitolo dopo capitolo, sperando che finalmente, dopo tutti quei mesi, gli venga versato quanto dovuto. Invano. Forse servirebbe fare una di quelle pose, un kìnema (cfr. pag. 14) alla Manero, come rito propiziatorio pre-inserimento carta. Oppure, maledizione, cambiare lavoro. Magari prendendo il primo aereo.

Gran libro.



di Gianfranco Franchi


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