CLASSICI
Alfredo Ronci
A noi pare un falso neorealista: “Il sarto della stradalunga” di Giuseppe Bonaviri.
Scriveva Walter Pedullà in proposito: Giuseppe Bonaviri fa la spola fra il reale più tangibile e il fantastico più etereo, fra storia e mito, tra la scienza e la magia, fra il solare e il notturno, fra la chiarezza e l’arcano, fra la superficie e il profondo, fra autobiografia fedele e invenzione surreale, fra razionalità e inconscio, fra l’attualità più profonda e il passato più remoto, fra Sicilia e Grecia o Arabia, fra il sud e il nord, fra la sua isola e il cielo. Anche nel neorealismo dell’esordio (Il sarto della stradalunga) fu scovata la propensione al mistero: che progressivamente egli avrebbe esorcizzato con le scoperte più audaci dell’astronomia e soprattutto con un linguaggio specialistico e insieme metaforico di essa.
Onestamente, credo, si possa dire che del Bonaviri si faccia di tutta un’erba un fascio. Perché dall’esposizione del Pedullà si scorgono elementi di un mondo e di un altro senza però specificare né l’uno né l’altro. Prendiamo ad esempio proprio Il sarto della stradalunga, l’esordio narrativo di un giovane scrittore siciliano. Dal Pedullà viene definito, senza mezzi termini e senza, ci pare, alcun dubbio, un romanzo neorealista. Per carità, i momenti sono quelli (1954), anche se nel corso di un paio d’anni si troveranno, nella letteratura italiana, formule e contenuti un po’ diversi, fino alla “rivoluzione” del Gruppo ’63, ma definire l’opera di Bonaviri di stampo neorealista mi sembra condannare la stessa ad una dimensione decisamente inferiore.
Non solo. Vittorini, che appunto in quegli anni dirigeva I Gettoni Einaudi, ed era solito presentare i giovani narratori della sua serie disse che il libro aveva una sua grazia settecentesca, di un settecento popolare, beninteso, e precisamente del tipo tra primitivo ed arcaico, cioè ingenuo e a colori grezzi, ma anche lezioso e poi aggiungeva: Il valore poetico del romanzo però è qualcosa di più profondo: nel senso delicatamente cosmico col quale l’autore rappresenta il piccolo mondo paesano su cui c’intrattiene, trovando anche nelle erbe e negli animali, nei sassi, nella polvere, nella luce della luna o del sole un moto o un grido di partecipazione alle povere peripezie del sarto e dei suoi.
Ora, al di là di certa grazia settecentesca che, mi perdoni il Vittorini, credo l’abbia vista solo lui, per il resto s’accapiglia in una visione critica del libro che però ci sembra più vicina, davvero, ai contenuti del libro (a questo punto vorrei aggiungere personalmente qualcosa anch’io: ma quegli interventi colloquiali che ogni tanto spezzano la trama non ricordano forse le risoluzioni del vecchio coro nella formazione del teatro greco?).
Vediamo adesso, con più precisione, i contenuti del libro: la storia, se vogliamo, è divisa, anzi è raccontata, in tre parti. La prima (assolutamente non diciamo qual è la nostra preferita, anche se in fondo in fondo c’è) è raccontata da don Pietro Sciré, sarto della stradalunga … costretto dall’ozio di questi mesi di fitto inverno, mi propongo di scrivere qualche pagina sulla mia vita.
La seconda è appannaggio della sorella di lui, Pina… della quale spero, quando la sera fa la calza accanto al braciere, farmi raccontare ciò che ha sperato di fare nei suoi quarantacinque anni che è al mondo.
La terza parte è ad opera del figlio Peppi… per mio figlio Peppi debbo stare più attento perché è molto ragazzo e potrebbe inventare di sua testa cose che non si leggono nemmeno nei Paladini di Francia.
Luogo in cui si svolgono i fatti, Mineo non distante da Catania. Come tutti i tetti di Mineo, tranne quello dei cavallucci e di qualche ricco massaro, il nostro era fatto di canne intrecciate e legate con spago, saldate tra loro da gesso che in minuscole stalattiti pendeva color bianco sporco. Aveva una pendenza eccessiva tanto che verso il balcone lo raggiungevamo con le mani.
Scrive ancora don Pietro Sciré… non so se faccio bene a trascrivere qualche fantasia che talvolta, nel rimuginarla, sembra appartenermi come ricordo vero e sfumato, vissuto in un’infanzia favolosa e lontana. Ma ogni individuo quando scrive non è sempre uguale, ma lega necessariamente il filo della sua storia a varie condizioni esterne come il rumore, il freddo, il caldo e a varie condizioni interne come piccole soddisfazioni avute, come incertezze che lo turbano e infine alla fisiologia dei suoi organi come gli intestini, il fegato, la vescica e il pene.
Ora, qualcuno in tutto questo ci vede il “premiato” neorealismo. Io ci vedo qualcosa in più, ma sta ai lettori decidere una strada.
L’edizione da noi considerata è:
Giuseppe Bonaviri
Il sarto della stradalunga
Einaudi
Onestamente, credo, si possa dire che del Bonaviri si faccia di tutta un’erba un fascio. Perché dall’esposizione del Pedullà si scorgono elementi di un mondo e di un altro senza però specificare né l’uno né l’altro. Prendiamo ad esempio proprio Il sarto della stradalunga, l’esordio narrativo di un giovane scrittore siciliano. Dal Pedullà viene definito, senza mezzi termini e senza, ci pare, alcun dubbio, un romanzo neorealista. Per carità, i momenti sono quelli (1954), anche se nel corso di un paio d’anni si troveranno, nella letteratura italiana, formule e contenuti un po’ diversi, fino alla “rivoluzione” del Gruppo ’63, ma definire l’opera di Bonaviri di stampo neorealista mi sembra condannare la stessa ad una dimensione decisamente inferiore.
Non solo. Vittorini, che appunto in quegli anni dirigeva I Gettoni Einaudi, ed era solito presentare i giovani narratori della sua serie disse che il libro aveva una sua grazia settecentesca, di un settecento popolare, beninteso, e precisamente del tipo tra primitivo ed arcaico, cioè ingenuo e a colori grezzi, ma anche lezioso e poi aggiungeva: Il valore poetico del romanzo però è qualcosa di più profondo: nel senso delicatamente cosmico col quale l’autore rappresenta il piccolo mondo paesano su cui c’intrattiene, trovando anche nelle erbe e negli animali, nei sassi, nella polvere, nella luce della luna o del sole un moto o un grido di partecipazione alle povere peripezie del sarto e dei suoi.
Ora, al di là di certa grazia settecentesca che, mi perdoni il Vittorini, credo l’abbia vista solo lui, per il resto s’accapiglia in una visione critica del libro che però ci sembra più vicina, davvero, ai contenuti del libro (a questo punto vorrei aggiungere personalmente qualcosa anch’io: ma quegli interventi colloquiali che ogni tanto spezzano la trama non ricordano forse le risoluzioni del vecchio coro nella formazione del teatro greco?).
Vediamo adesso, con più precisione, i contenuti del libro: la storia, se vogliamo, è divisa, anzi è raccontata, in tre parti. La prima (assolutamente non diciamo qual è la nostra preferita, anche se in fondo in fondo c’è) è raccontata da don Pietro Sciré, sarto della stradalunga … costretto dall’ozio di questi mesi di fitto inverno, mi propongo di scrivere qualche pagina sulla mia vita.
La seconda è appannaggio della sorella di lui, Pina… della quale spero, quando la sera fa la calza accanto al braciere, farmi raccontare ciò che ha sperato di fare nei suoi quarantacinque anni che è al mondo.
La terza parte è ad opera del figlio Peppi… per mio figlio Peppi debbo stare più attento perché è molto ragazzo e potrebbe inventare di sua testa cose che non si leggono nemmeno nei Paladini di Francia.
Luogo in cui si svolgono i fatti, Mineo non distante da Catania. Come tutti i tetti di Mineo, tranne quello dei cavallucci e di qualche ricco massaro, il nostro era fatto di canne intrecciate e legate con spago, saldate tra loro da gesso che in minuscole stalattiti pendeva color bianco sporco. Aveva una pendenza eccessiva tanto che verso il balcone lo raggiungevamo con le mani.
Scrive ancora don Pietro Sciré… non so se faccio bene a trascrivere qualche fantasia che talvolta, nel rimuginarla, sembra appartenermi come ricordo vero e sfumato, vissuto in un’infanzia favolosa e lontana. Ma ogni individuo quando scrive non è sempre uguale, ma lega necessariamente il filo della sua storia a varie condizioni esterne come il rumore, il freddo, il caldo e a varie condizioni interne come piccole soddisfazioni avute, come incertezze che lo turbano e infine alla fisiologia dei suoi organi come gli intestini, il fegato, la vescica e il pene.
Ora, qualcuno in tutto questo ci vede il “premiato” neorealismo. Io ci vedo qualcosa in più, ma sta ai lettori decidere una strada.
L’edizione da noi considerata è:
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