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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Mariella Mehr

Accusata

Effigie, Pag. 96 Euro 12,00
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E' un libro che non fa dormire. Aspro, scabro come un deserto di roccia. Conclude la 'Trilogia della violenza' in cui l'Autrice, scrittrice svizzera di origini zingare, riversa il dolore distillato da tante storie vicine alla sua esperienza.

E' opinione diffusa fra gli psichiatri che la malattia mentale non sia un modo di funzionare sbagliato della mente, ma al contrario, che essa sia la migliore forma di adattamento per proteggersi dal dolore in situazioni insostenibili.

Dunque, per chi volesse sapere che cosa succede nella mente di una persona patologicamente antisociale, autrice di atti di piromania e di omicidi seriali, non resta che entrare in quella mente. Ma entrarci davvero. Non ci si sta comodi, e vien subito voglia di tornare indietro. L'Autrice non ci fa sconti. Volevamo sapere, abbiamo forse qualche volta detto non capisco come si possa arrivare a... Bene, qui lo vediamo da dentro, e non come dietro il vetro di un acquario. Lo vediamo sentendo dolore. Solo una parte infinitesimale, si capisce, di quello della protagonista del libro, certo non possiamo metterci al suo posto. Ma un po' di dolore lo dobbiamo sentire.

Il libro è una lunga confessione, senza pentimento, resa dall'accusata a una psicologa che la visita in carcere. Racconta la lucida follia delle sue imprese in compagnia dell'amica Malik, un alter ego partorito dalla sua mente.

Poco dopo il mio dodicesimo compleanno, all'improvviso, Malik era lì. Da un'ora all'altra. Ha riso del mio stupore, mi ha preso a braccetto ed è rimasta.

Malik dalle scarpe rosse l'aiuta a tradurre in azioni concrete il torrente della sua rabbia. Come i primi incendi appiccati alle case.

Come bruciavano negli occhi le esalazioni delle nubi di fumo rosse, come seccavano la gola. Noi non strizzavamo mai gli occhi, le nostre bocche restavano aperte. Non sospiravamo con la folla quando le scintille dell'incendio si spegnevano a metà strada. Costruivamo attorno a noi un altro mondo, come se fosse ancora estate.

Man mano, nel racconto frammentato che mescola momenti diversi, la storia si arricchisce di dettagli, di riferimenti inquietanti. Le scarpe rosse, in particolare, nascondono un segreto su cui i giudici si accaniscono invano.

Della sua infanzia all'inizio dice poco. Una madre alcolizzata e un padre che abbandona la famiglia sono senz'altro fonte di dolore. Ma come giustificare una rabbia così implacabile, un odio coltivato senza ripensamenti?

Ho trovato mia madre in cucina completamente sconvolta, ho visto nei suoi occhi il panico, il viso stravolto dalla paura. Solo allora è subentrata la soddisfazione, quella che Lei e il giudice istruttore dite che avrei dovuto provare fin da prima. Fin dal momento in cui il fuoco si è propagato. No, è stata la paura di mia madre.

Passo dopo passo, assistiamo ad un crescendo della violenza, fino all'orrore. Ma ciò che è straordinario è come vengono rivelati insieme, a gradi, l'orrore commesso e l'orrore subito. Ora l'uno ora l'altro, e l'uno trae consistenza dall'altro, finché tutt'e due arrivano al culmine. Allora non sai se avere più pietà per la vittima o per il carnefice, e su questa scelta impossibile si consuma il senso di tutta la storia. Si comprende che chi ha scritto questo romanzo deve aver attraversato tutte le sfumature del dolore.

E'poi straordinario il linguaggio, volutamente semplice perché espressione di una mente selvaggia, non imbrigliata dalla ragione, e che pure, proprio in virtù della felice sintesi che nasce nell'impatto diretto fra impulso e parola, è linguaggio assolutamente poetico.



di Giovanna Repetto


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