RECENSIONI
Jacques Rigaut
Agenzia generale del suicidio
Le Nubi, Pag. 86 Euro 12,00
Insegnami come si fa non sentirsi mai di troppo e a non avere sempre dentro il mare d'Inverno cantavano gli Otto Ohm .
È la domanda che forse cercava di porre (si) anche Jacques Rigaut, "l'uomo che viaggiava con il suo suicidio all'occhiello", che scriveva per vomitare e non per essere pubblicato, per far parte di una scuola o di una classe di intellettuali e letterati che tanto disprezzava quanto osservava con ironica e disdegnata ammirazione ("E' per me una necessità alimentare credere alla mediocrità della gente", ma c'è ammirazione o invidia in questa frase?).
Nato nel 1898 vive in una Parigi che è "una festa continua", al margine di una strada lastricata di scritti versati su pagine strappate ai bloc notes, su carta di hotel e poi divorati dal movimento contrastante e distruttivo delle sue mani e del suo ghigno.
Questo scritto, dal titolo fuorviante e accattivante, scampa alla devastazione dello scrittore francese e alla sua condizione di profondo annoiato e disturbato essere senziente e arriva in Italia per parlarci, in modo allegorico, grottesco, diaristico e sconnesso del pensiero dell'autore stesso.
Un dandy che aveva deciso di offrire la sua esistenza alla morte, una morte elegante. Lui con profondo senso estetico, paragonabile forse a Ryunosuke Akutugawa, suo contemporaneo, anche nel gusto della Fine, decise di sperperare ogni grammo della sua anima in alcool, eroina, lusso. E l'amore? Noioso, si può amare, perdendo tempo in un certo senso, una ragazzetta di poche aspettative, perché si vedono in lei cose che neanche possiede e pur sapendo di vivere un amore patetico e frustrante, continuare. Perché? Perché "La noia è verità, stato puro".
La mente di Rigaut è segnata dal raziocinio spietato e folle di chi si parla con la fredda e cupa perseveranza del j'accuse: un Pensiero fatto di mille congetture intellettuali, di disamine attente di una realtà che viene capovolta dal riflesso del proprio viso, un ammasso di carne fatto di essere e non essere. Un contenitore dove tutti si possono ritrovare, riverberare, tutti tranne l'anima che lo fa muovere quel corpo. Nella sua storia infatti, il dandy suicida si lancia contro uno spesso specchio uscendone con un piccolo graffio sulla fronte, quando avrebbe dovuto farsi male in modo più grave, ma con una ricomposizione del sé, dell'uomo Rigaut e delle sue condizioni/imposizioni di vita.
Scosso da profondi deliri (anche alcolici) del corpo viaggia, va nelle Americhe, torna alla sua Parigi, si intossica, si disintossica, capisce la sua maschera e ghigna, oh, ghigna e gode del rumore del suo ghigno. "Maschere volete e maschere avrete" sembra dire, anzi lo dice molto spesso in frasi che mostrano tutta la guerra tra il palcoscenico e la platea del suo quotidiano respiro "Pronuncio il mio nome, dico io e subito evoco un personaggio in realtà tanto fantomatico/astratto/arbitrario quanto l'acqua si riconosce nel simbolo H2O piuttosto che sotto forma di grandine, torrente, ecc".
Agenzia Generale del suicidio non è un romanzo. Non aspettatevi umorismo fantastico, trovate stilistiche fatte per vendere un libro, creazioni immaginarie per parlare della realtà. In questo libro c'è Jacques Rigaut, c'è tutta la sua tragica e composta disperazione, tutta la sua felice disperazione. Lui che con trent'anni di stanchezza sulla spalle, nel 1929 sistema la sua camera, la sua collezione di scatole di fiammiferi, si sdraia tutto vestito con il nodo della cravatta impeccabile e usando un regolo, un cuscino per attutire il rumore, si spara al cuore.
"Insegnami come si fa non sentirsi mai di troppo e a non avere sempre dentro il mare d'Inverno" chiedevano gli Otto Ohm e Jacques risponde dal suo letto, a modo suo , con una frase scritta su un pezzo di carta qualsiasi: "Vi trascinerò in una solitudine tale che la morte potrebbe dimenticarsi di noi"... "...non facendoci mai sentire di troppo e con un mare d'inverno che divora i battiti" verrebbe da aggiungere.
Verrebbe da aggiungere...
di Alex Pietrogiacomi
È la domanda che forse cercava di porre (si) anche Jacques Rigaut, "l'uomo che viaggiava con il suo suicidio all'occhiello", che scriveva per vomitare e non per essere pubblicato, per far parte di una scuola o di una classe di intellettuali e letterati che tanto disprezzava quanto osservava con ironica e disdegnata ammirazione ("E' per me una necessità alimentare credere alla mediocrità della gente", ma c'è ammirazione o invidia in questa frase?).
Nato nel 1898 vive in una Parigi che è "una festa continua", al margine di una strada lastricata di scritti versati su pagine strappate ai bloc notes, su carta di hotel e poi divorati dal movimento contrastante e distruttivo delle sue mani e del suo ghigno.
Questo scritto, dal titolo fuorviante e accattivante, scampa alla devastazione dello scrittore francese e alla sua condizione di profondo annoiato e disturbato essere senziente e arriva in Italia per parlarci, in modo allegorico, grottesco, diaristico e sconnesso del pensiero dell'autore stesso.
Un dandy che aveva deciso di offrire la sua esistenza alla morte, una morte elegante. Lui con profondo senso estetico, paragonabile forse a Ryunosuke Akutugawa, suo contemporaneo, anche nel gusto della Fine, decise di sperperare ogni grammo della sua anima in alcool, eroina, lusso. E l'amore? Noioso, si può amare, perdendo tempo in un certo senso, una ragazzetta di poche aspettative, perché si vedono in lei cose che neanche possiede e pur sapendo di vivere un amore patetico e frustrante, continuare. Perché? Perché "La noia è verità, stato puro".
La mente di Rigaut è segnata dal raziocinio spietato e folle di chi si parla con la fredda e cupa perseveranza del j'accuse: un Pensiero fatto di mille congetture intellettuali, di disamine attente di una realtà che viene capovolta dal riflesso del proprio viso, un ammasso di carne fatto di essere e non essere. Un contenitore dove tutti si possono ritrovare, riverberare, tutti tranne l'anima che lo fa muovere quel corpo. Nella sua storia infatti, il dandy suicida si lancia contro uno spesso specchio uscendone con un piccolo graffio sulla fronte, quando avrebbe dovuto farsi male in modo più grave, ma con una ricomposizione del sé, dell'uomo Rigaut e delle sue condizioni/imposizioni di vita.
Scosso da profondi deliri (anche alcolici) del corpo viaggia, va nelle Americhe, torna alla sua Parigi, si intossica, si disintossica, capisce la sua maschera e ghigna, oh, ghigna e gode del rumore del suo ghigno. "Maschere volete e maschere avrete" sembra dire, anzi lo dice molto spesso in frasi che mostrano tutta la guerra tra il palcoscenico e la platea del suo quotidiano respiro "Pronuncio il mio nome, dico io e subito evoco un personaggio in realtà tanto fantomatico/astratto/arbitrario quanto l'acqua si riconosce nel simbolo H2O piuttosto che sotto forma di grandine, torrente, ecc".
Agenzia Generale del suicidio non è un romanzo. Non aspettatevi umorismo fantastico, trovate stilistiche fatte per vendere un libro, creazioni immaginarie per parlare della realtà. In questo libro c'è Jacques Rigaut, c'è tutta la sua tragica e composta disperazione, tutta la sua felice disperazione. Lui che con trent'anni di stanchezza sulla spalle, nel 1929 sistema la sua camera, la sua collezione di scatole di fiammiferi, si sdraia tutto vestito con il nodo della cravatta impeccabile e usando un regolo, un cuscino per attutire il rumore, si spara al cuore.
"Insegnami come si fa non sentirsi mai di troppo e a non avere sempre dentro il mare d'Inverno" chiedevano gli Otto Ohm e Jacques risponde dal suo letto, a modo suo , con una frase scritta su un pezzo di carta qualsiasi: "Vi trascinerò in una solitudine tale che la morte potrebbe dimenticarsi di noi"... "...non facendoci mai sentire di troppo e con un mare d'inverno che divora i battiti" verrebbe da aggiungere.
Verrebbe da aggiungere...
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