RECENSIONI
Philippe Forest
Anche se avessi torto. Storia di un sacrificio
Alet, Pag. 125 Euro 14,00
Autore di almeno un libro memorabile, straziante, potentissimo, Tutti i bambini tranne uno, racconto della tragica scomparsa della figlia, una bambina di cinque anni, Forest è uno scrittore straordinario. Teorico oltre che scrittore, attualmente insegnante di letteratura comparata all'Università di Nantes, di lui basti dire che ha rimesso in gioco il tragico in letteratura – ossia il tragico tout court.
Dopo che il secondo Novecento ci aveva convinti dell'impossibilità di riavvicinarlo, Forest affrontando un dolore privatissimo e incommensurabile è stato capace di farne letteratura, non finzione ma testimonianza: ossia immersione totale nell'"impossibile della realtà" ("la morte di un bambino è una delle figure di questo impossibile"), per renderne partecipe il lettore. Il tragico, questa messa in gioco senza soluzione di un conflitto irrimediabile, questa vertigine impedita a qualsiasi salvezza, questo dolore senza consolazione: trovate qualcuno in giro che sia ancora in grado di affrontarlo senza nasconderlo, ossia renderlo praticabile senza la maschera del comico. Dieci anni dopo, e dopo essere passato nel romanzo Per una notte attraverso il dolore della moglie, madre della bambina, e aver ripassato senza il lirismo del primo libro la stessa vicenda, lo scrittore francese torna su quel dolore: ancora una volta, senza rimedio.
Il fatto è che per lui come per noi la religione non può farvi niente. Se Forest comprende che "la ragione sociale della religione dipende dalla sua capacità di volgere il negativo in positivo", egli sa pure che la faccenda non lo riguarda. Perciò non avvia nessun discorso teologico, caso mai nota che quello che vi è di interessante nel Cristianesimo è proprio ciò che esso esclude in quanto "aporia della sofferenza" – fra le altre, Cristo che dal Golgota si rivolge al Padre e gli chiede perché è stato abbandonato (per Slavoy Zizek, nel recente La mostruosità di Cristo, si tratta di una domanda capitale, l'abisso che fa vacillare la Fede – dal principio).
La figlia dunque è insostituibile, e in questa verità apparentemente ovvia vi è tutta la fallimentare quanto necessaria inevitabilità del tragico. L'accettazione di questa condizione – la vita che resta – non ha nulla di letterario se non per qualcosa che aggiungerò alla fine. Essa ha da fare con la terribile, intollerabile e cupa onestà di una convinzione: non essendovi nessun dio, il vuoto di quella morte può essere colmato solo con un'altra morte - la propria. Ovvio che questa radicalità filosofica sia parte in causa non solo di un dolore immedicabile ma pure dello scandalo di quella che non si fa fatica a definire "una somma ingiustizia".
La letteratura di Forest marca la distanza ormai incolmabile che lo allontana dall'altro ex grande scrittore francese degli ultimi anni, Houellebecq, che a un certo punto ha cominciato a fare la parodia di se stesso mostrando come il nichilismo non fosse più un problema per lui – la deriva del mondo assumendo ai suoi occhi un aspetto piuttosto friendly.
Un'ultima cosa, sul letterario di cui sopra: nessuno come Forest è in grado di mostrare oggi una verità che gli scrittori veri conoscono bene: "chi scrive è sommerso dall'esperienza dolorosa della vita, e nonostante tutto allo stesso tempo si salva". Una faccenda che riguarda Forest, lo speriamo (e per tutti noi, che nella salvezza della letteratura non finiamo ostinatamente di credere).
E un'ultimissima, che ci sta a proposito: quelli di Alet sono i libri più belli che si facciano oggi in Italia.
di Michele Lupo
Dopo che il secondo Novecento ci aveva convinti dell'impossibilità di riavvicinarlo, Forest affrontando un dolore privatissimo e incommensurabile è stato capace di farne letteratura, non finzione ma testimonianza: ossia immersione totale nell'"impossibile della realtà" ("la morte di un bambino è una delle figure di questo impossibile"), per renderne partecipe il lettore. Il tragico, questa messa in gioco senza soluzione di un conflitto irrimediabile, questa vertigine impedita a qualsiasi salvezza, questo dolore senza consolazione: trovate qualcuno in giro che sia ancora in grado di affrontarlo senza nasconderlo, ossia renderlo praticabile senza la maschera del comico. Dieci anni dopo, e dopo essere passato nel romanzo Per una notte attraverso il dolore della moglie, madre della bambina, e aver ripassato senza il lirismo del primo libro la stessa vicenda, lo scrittore francese torna su quel dolore: ancora una volta, senza rimedio.
Il fatto è che per lui come per noi la religione non può farvi niente. Se Forest comprende che "la ragione sociale della religione dipende dalla sua capacità di volgere il negativo in positivo", egli sa pure che la faccenda non lo riguarda. Perciò non avvia nessun discorso teologico, caso mai nota che quello che vi è di interessante nel Cristianesimo è proprio ciò che esso esclude in quanto "aporia della sofferenza" – fra le altre, Cristo che dal Golgota si rivolge al Padre e gli chiede perché è stato abbandonato (per Slavoy Zizek, nel recente La mostruosità di Cristo, si tratta di una domanda capitale, l'abisso che fa vacillare la Fede – dal principio).
La figlia dunque è insostituibile, e in questa verità apparentemente ovvia vi è tutta la fallimentare quanto necessaria inevitabilità del tragico. L'accettazione di questa condizione – la vita che resta – non ha nulla di letterario se non per qualcosa che aggiungerò alla fine. Essa ha da fare con la terribile, intollerabile e cupa onestà di una convinzione: non essendovi nessun dio, il vuoto di quella morte può essere colmato solo con un'altra morte - la propria. Ovvio che questa radicalità filosofica sia parte in causa non solo di un dolore immedicabile ma pure dello scandalo di quella che non si fa fatica a definire "una somma ingiustizia".
La letteratura di Forest marca la distanza ormai incolmabile che lo allontana dall'altro ex grande scrittore francese degli ultimi anni, Houellebecq, che a un certo punto ha cominciato a fare la parodia di se stesso mostrando come il nichilismo non fosse più un problema per lui – la deriva del mondo assumendo ai suoi occhi un aspetto piuttosto friendly.
Un'ultima cosa, sul letterario di cui sopra: nessuno come Forest è in grado di mostrare oggi una verità che gli scrittori veri conoscono bene: "chi scrive è sommerso dall'esperienza dolorosa della vita, e nonostante tutto allo stesso tempo si salva". Una faccenda che riguarda Forest, lo speriamo (e per tutti noi, che nella salvezza della letteratura non finiamo ostinatamente di credere).
E un'ultimissima, che ci sta a proposito: quelli di Alet sono i libri più belli che si facciano oggi in Italia.
di Michele Lupo
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