CLASSICI
Alfredo Ronci
C’è del vero e del falso ne “La Califfa” di Alberto Bevilacqua.
Devo ammetterlo, Alberto Bevilacqua non mi è mai piaciuto, nonostante non avessi mai letto nulla di lui. I motivi? Francamente mi sfuggono anche se, prima della sua scomparsa, gli innumerevoli incontri anche televisivi con la sua persona mi avevano lasciato molta acredine. Per cui, nonostante le mie buonissime ragioni, lo avevo depennato dalla mia personale lista di scrittori da controllare.
Ora però la nostra disanima dei classici (perché comunque Bevilacqua è un classico) della letteratura italiana ci consente di porci alcuni quesiti sulla sua arte e soprattutto una sorta di riqualificazione sui suoi innumerevoli scritti.
Ma si sa, sempre considerando la nostra attitudine allo studio, per una sorta di abbreviazione, abbiamo deciso di confrontarci con la sua “La califfa”.
Bevilacqua non è mai stato troppo ben voluto dalla nostra critica, nonostante il successo che i suoi libri hanno ottenuto anche all’estero. Tanto per citarne alcuni, Bàrberi Squarotti diceva che il suo scrivere era… colorito, avventuroso, a mezzo fra la descrizione politica e quella erotica, fra il romanzo d’avventure e quello di costume, con un piglio dialettale corposo, grasso, robusto, ma pur sempre un po’ epidermico, facile… mentre Walter Pedullà, nella sua bruciante struttura espositiva, ci appare più corposo e accondiscendente… Bevilacqua parla preferibilmente d’amore e dei più prepotenti sentimenti. Dalla parte delle donne, che sono più viscerali e travolgenti: come d’altronde vuole essere la narrativa di Bevilacqua. La temperatura è sempre molto alta, la frase tambureggia come un battito cardiaco febbrile, i colori si accendono.
Dei due critici, se dovessi fare una scelta tutta mia, preferirei il primo, perché pare aver capito l’essenza stessa del linguaggio di Bevilacqua, che è sì, come dice Pedullà, alto e febbrile ma anche portato ad uno stato epidermico e appunto facile. Ma torniamo a noi, anzi a La Califfa.
Dopo Una città in amore, il suo libro d’esordio, Bevilacqua nel 1964 esce con appunto La Califfa che, in breve tempo, otterrà un enorme successo sia in patria che all’estero per concludere poi la lista dei successi con la rappresentazione cinematografica (1970 con Ugo Tognazzi e soprattutto Romy Schneider).
La Califfa è una bella donna popolare che dalla vita non ha ottenuto granché, anzi: prima perde il bambino di pochi anni, poi perde il marito in un incidente che però le fa aumentare la stima e l’affetto per l’uomo. Passano gli anni e diventa l’amante del potente della città, il maggiore industriale. Un’amante senza servilismo nel cui affetto il vecchio industriale ritrova una voglia diversa di vita e d’amore.
Tanto diversa che di fronte al Monsignore del luogo che gli chiede il perché di certe sue azioni (arriva persino ad andare a una festa di paese con la Califfa mentre sua moglie è a casa ammalata) risponde accorato: Caro Monsignore, è inutile che stiamo a discutere. I preti, certe cose, non possono, o non vogliono, afferrarle. Potrei dirle che a quella ragazza io voglio bene, che almeno con lei non debbo guardarmi alle spalle, che comincio a capire tante cose, a guardarmi attorno con altri occhi, Monsignore mio, e più sani, più puliti, più generosi e, se vuole, anche più cristiani… ed è stata proprio lei a spingermi a questo, lei, quella ragazza che lei disprezza.
Tutto questo sembra perfetto e quasi inattaccabile, persino in presenza di una moglie, che seppur ammalata, cerca in tutti i modi di pretendere il suo… ma il destino a volte sembra crudele e imprescindibile. Doberdò, l’industriale apparentemente indistruttibile, muore all’improvviso, lasciando la Califfa così come l’ha trovata, costringendola a tornare dov’era nata, nel suo quartiere d’origine.
Dunque cos’è la Califfa? Se vogliamo una proto-femminista? Siamo nei primi anni sessanta, alcune giovani scrittrici hanno già dato (quasi) il meglio. Mi riferisco alla Maraini, alla Morante, persino alla Milena Milani. Le loro protagoniste si stagliano in modo diverso rispetto alle consuetudini stabilite. La Califfa, pur riscattandosi da una vita bassa e povera, non ha la forza necessaria per stabilire i suoi diritti. Non ci pare una femminista, soltanto una donna attiva di mente, ma non certo di cuore.
Per quanto riguarda Bevilacqua, mi rimangono dei dubbi, anche se non posso esimermi dal dire che parti del romanzo, ma la stessa scrittura in generale dello scrittore, mi sembrano quanto meno affascinanti: è un bel dire il suo, accompagnato, come ha già detto qualcuno, da una forza e un vigore quasi inaspettato. Ma è un vigore tutto popolare, inquieto sì ma del tutto privo di connotazioni universali.
Cochi e Renato avrebbero dato 7+. Forse anche qualcosa di meno.
Alberto Bevilacqua
La Califfa
Rizzoli
Ora però la nostra disanima dei classici (perché comunque Bevilacqua è un classico) della letteratura italiana ci consente di porci alcuni quesiti sulla sua arte e soprattutto una sorta di riqualificazione sui suoi innumerevoli scritti.
Ma si sa, sempre considerando la nostra attitudine allo studio, per una sorta di abbreviazione, abbiamo deciso di confrontarci con la sua “La califfa”.
Bevilacqua non è mai stato troppo ben voluto dalla nostra critica, nonostante il successo che i suoi libri hanno ottenuto anche all’estero. Tanto per citarne alcuni, Bàrberi Squarotti diceva che il suo scrivere era… colorito, avventuroso, a mezzo fra la descrizione politica e quella erotica, fra il romanzo d’avventure e quello di costume, con un piglio dialettale corposo, grasso, robusto, ma pur sempre un po’ epidermico, facile… mentre Walter Pedullà, nella sua bruciante struttura espositiva, ci appare più corposo e accondiscendente… Bevilacqua parla preferibilmente d’amore e dei più prepotenti sentimenti. Dalla parte delle donne, che sono più viscerali e travolgenti: come d’altronde vuole essere la narrativa di Bevilacqua. La temperatura è sempre molto alta, la frase tambureggia come un battito cardiaco febbrile, i colori si accendono.
Dei due critici, se dovessi fare una scelta tutta mia, preferirei il primo, perché pare aver capito l’essenza stessa del linguaggio di Bevilacqua, che è sì, come dice Pedullà, alto e febbrile ma anche portato ad uno stato epidermico e appunto facile. Ma torniamo a noi, anzi a La Califfa.
Dopo Una città in amore, il suo libro d’esordio, Bevilacqua nel 1964 esce con appunto La Califfa che, in breve tempo, otterrà un enorme successo sia in patria che all’estero per concludere poi la lista dei successi con la rappresentazione cinematografica (1970 con Ugo Tognazzi e soprattutto Romy Schneider).
La Califfa è una bella donna popolare che dalla vita non ha ottenuto granché, anzi: prima perde il bambino di pochi anni, poi perde il marito in un incidente che però le fa aumentare la stima e l’affetto per l’uomo. Passano gli anni e diventa l’amante del potente della città, il maggiore industriale. Un’amante senza servilismo nel cui affetto il vecchio industriale ritrova una voglia diversa di vita e d’amore.
Tanto diversa che di fronte al Monsignore del luogo che gli chiede il perché di certe sue azioni (arriva persino ad andare a una festa di paese con la Califfa mentre sua moglie è a casa ammalata) risponde accorato: Caro Monsignore, è inutile che stiamo a discutere. I preti, certe cose, non possono, o non vogliono, afferrarle. Potrei dirle che a quella ragazza io voglio bene, che almeno con lei non debbo guardarmi alle spalle, che comincio a capire tante cose, a guardarmi attorno con altri occhi, Monsignore mio, e più sani, più puliti, più generosi e, se vuole, anche più cristiani… ed è stata proprio lei a spingermi a questo, lei, quella ragazza che lei disprezza.
Tutto questo sembra perfetto e quasi inattaccabile, persino in presenza di una moglie, che seppur ammalata, cerca in tutti i modi di pretendere il suo… ma il destino a volte sembra crudele e imprescindibile. Doberdò, l’industriale apparentemente indistruttibile, muore all’improvviso, lasciando la Califfa così come l’ha trovata, costringendola a tornare dov’era nata, nel suo quartiere d’origine.
Dunque cos’è la Califfa? Se vogliamo una proto-femminista? Siamo nei primi anni sessanta, alcune giovani scrittrici hanno già dato (quasi) il meglio. Mi riferisco alla Maraini, alla Morante, persino alla Milena Milani. Le loro protagoniste si stagliano in modo diverso rispetto alle consuetudini stabilite. La Califfa, pur riscattandosi da una vita bassa e povera, non ha la forza necessaria per stabilire i suoi diritti. Non ci pare una femminista, soltanto una donna attiva di mente, ma non certo di cuore.
Per quanto riguarda Bevilacqua, mi rimangono dei dubbi, anche se non posso esimermi dal dire che parti del romanzo, ma la stessa scrittura in generale dello scrittore, mi sembrano quanto meno affascinanti: è un bel dire il suo, accompagnato, come ha già detto qualcuno, da una forza e un vigore quasi inaspettato. Ma è un vigore tutto popolare, inquieto sì ma del tutto privo di connotazioni universali.
Cochi e Renato avrebbero dato 7+. Forse anche qualcosa di meno.
Alberto Bevilacqua
La Califfa
Rizzoli
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