RECENSIONI
Alessio Dimartino
C'è posto tra gli indiani
Giulio Perrone , Pag. 192 13 Euro
Un bel giorno, anzi una bella sera, a Marcello, veterinario suo malgrado, viene consegnato in casa un cane, un cocker fulvo, da un anziano e sconosciuto signore che gli piomba in casa senza quasi chiedere il permesso. Gli dice che il cane è un po' malandato e va rimesso in sesto in un ambiente ideale. Peccato che Marcello, eroinomane devastato da una depressione pre-suicida, era lì lì per farla finita e all'improvviso si ritrova con questa novità che lo costringerà a rivedere, almeno per quella notte, il suo piano. Il vecchio scompare. Marcello e Bobo, il cane, si ritrovano da soli. Si avventurano così per le strade di una Roma notturna e assurda come un mondo onirico che abbia a nostra insaputa preso il posto della realtà senza avvertirci.
La terza prova narrativa di Alessio Dimartino, candidato per l'editore Giulio Perrone al Premio Strega di quest'anno, è davvero spiazzante. In senso positivo. Difficile trovare autori italiani che osino strutturare storie come questa. Siamo dalle parti di un viaggio dell'eroe notturno che ha la fortuna/sfortuna di ritrovarsi davanti i suoi incubi (misti ai sogni) disseminati sulle strade di una città fantastica come solo qualche regista onirico ha saputo descrivere. Dal Pigneto alla Casilina a San lorenzo a via Appia, Marcello e Bobo s'imbattono in un'umanità (umanità?) al limite; africani, indiani, vecchie megere che vivono in case zoo, marchettari gentili, puttane disturbate, cose, ragazzoni che giocano a tennis su campi fuori mano, fantasmi di guardie giurate, persone/personaggi che suscitano ricordi in uno stream of consciousness a tratti impetuoso e irresistibile come la scrittura di Dimartino; una delle penne più rilevanti della narrativa contemporanea italiana attuale, giovane (aggiungerei) tra virgolette.
La scelta dei luoghi in cui far capitare gli incontri di primo acchito potrebbe sembrare furba (così come stereotipata quella dei 'reietti' incontrati). Alcuni sono i santuari della Roma notturna dell'underground trendy, 'alternativa', c'era il rischio di risvegliare, con l'ennesima seduta spiritico-romanzesca vetero progressista, lo spettro del Pasolini “borgataro” di cui ormai (opinione personale) non sappiamo più che farci. E invece “C'è posto tra gli indiani”, questo il titolo del romanzo, prende una piega assolutamente inaspettata, e inizia a scarabocchiare Roma e la sua pseudo umanità con i tratti che difficilmente vediamo disegnare ai narratori contemporanei: quelli dell'assurdo, del surreale, del grottesco, del tragicomico che solo i grandi narratori sudamericani sanno fare naturalmente. Insomma Dimartino condisce una storia di amore e morte con quell'ingrediente fondamentale, la follia, senza il quale (ed è la stessa vita ad ammonirci) le cose non avrebbero alcun senso. Perché non è, come dice Pasolini, la morte che dà un senso alla vita, come un montaggio a ritroso, l'unico senso alla vita glielo dà la capacità di saper smascherare (e accogliere) la sua follia, insita in ogni atomo, particella, la follia che ha fatto sì che qualcuno o qualcosa creasse una cosa, appunto, folle come la vita e i pianeti che la ospitano. “C'è posto fra gli indiani” è un piccolo “Fuori Orario” di un Martin Scorsese letterario, ambientato in una Roma impazzita di bellezza atroce. Il guaio è che verrà gettato in pasto ai sonnacchiosi critici del realismo vetero progressista che lo dovranno giudicare per il premio più popolare (e meno fulgido) del panorama letterario italiano. Per lui prevedo una giuria di cowboy pronti a premere il grilletto su indiani tutt'altro che buoni e dalla parte giusta della storia. Troppa saggezza folle. Fa male. Troppa bellezza impazzita, che non è Grande. C'è solo sfuggita di mano perché credevamo di poterla controllare. Come la vecchia che abita in una casa zoo piena di merde e cibo avariato e che piange il suo cocorito destinato a morire di vecchiaia. Una delle cose più belle che abbia letto ultimamente.
di Adriano Angelini Sut
La terza prova narrativa di Alessio Dimartino, candidato per l'editore Giulio Perrone al Premio Strega di quest'anno, è davvero spiazzante. In senso positivo. Difficile trovare autori italiani che osino strutturare storie come questa. Siamo dalle parti di un viaggio dell'eroe notturno che ha la fortuna/sfortuna di ritrovarsi davanti i suoi incubi (misti ai sogni) disseminati sulle strade di una città fantastica come solo qualche regista onirico ha saputo descrivere. Dal Pigneto alla Casilina a San lorenzo a via Appia, Marcello e Bobo s'imbattono in un'umanità (umanità?) al limite; africani, indiani, vecchie megere che vivono in case zoo, marchettari gentili, puttane disturbate, cose, ragazzoni che giocano a tennis su campi fuori mano, fantasmi di guardie giurate, persone/personaggi che suscitano ricordi in uno stream of consciousness a tratti impetuoso e irresistibile come la scrittura di Dimartino; una delle penne più rilevanti della narrativa contemporanea italiana attuale, giovane (aggiungerei) tra virgolette.
La scelta dei luoghi in cui far capitare gli incontri di primo acchito potrebbe sembrare furba (così come stereotipata quella dei 'reietti' incontrati). Alcuni sono i santuari della Roma notturna dell'underground trendy, 'alternativa', c'era il rischio di risvegliare, con l'ennesima seduta spiritico-romanzesca vetero progressista, lo spettro del Pasolini “borgataro” di cui ormai (opinione personale) non sappiamo più che farci. E invece “C'è posto tra gli indiani”, questo il titolo del romanzo, prende una piega assolutamente inaspettata, e inizia a scarabocchiare Roma e la sua pseudo umanità con i tratti che difficilmente vediamo disegnare ai narratori contemporanei: quelli dell'assurdo, del surreale, del grottesco, del tragicomico che solo i grandi narratori sudamericani sanno fare naturalmente. Insomma Dimartino condisce una storia di amore e morte con quell'ingrediente fondamentale, la follia, senza il quale (ed è la stessa vita ad ammonirci) le cose non avrebbero alcun senso. Perché non è, come dice Pasolini, la morte che dà un senso alla vita, come un montaggio a ritroso, l'unico senso alla vita glielo dà la capacità di saper smascherare (e accogliere) la sua follia, insita in ogni atomo, particella, la follia che ha fatto sì che qualcuno o qualcosa creasse una cosa, appunto, folle come la vita e i pianeti che la ospitano. “C'è posto fra gli indiani” è un piccolo “Fuori Orario” di un Martin Scorsese letterario, ambientato in una Roma impazzita di bellezza atroce. Il guaio è che verrà gettato in pasto ai sonnacchiosi critici del realismo vetero progressista che lo dovranno giudicare per il premio più popolare (e meno fulgido) del panorama letterario italiano. Per lui prevedo una giuria di cowboy pronti a premere il grilletto su indiani tutt'altro che buoni e dalla parte giusta della storia. Troppa saggezza folle. Fa male. Troppa bellezza impazzita, che non è Grande. C'è solo sfuggita di mano perché credevamo di poterla controllare. Come la vecchia che abita in una casa zoo piena di merde e cibo avariato e che piange il suo cocorito destinato a morire di vecchiaia. Una delle cose più belle che abbia letto ultimamente.
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