RECENSIONI
Carmen Pellegrino
Cade la terra
Giunti, Pag. 224 Euro 14,00
Davvero questo romanzo si apre come il palcoscenico di un teatro, e ne conserva la struttura per tutto il tempo. Del teatro ha il gioco dei pieni e dei vuoti. I tempi dilatati o superati con un salto. Non sono i dialoghi a fare il teatro, ma in primo luogo la scena. Tant’è vero che il teatro si può fare anche senza parole.
Dunque a fare teatro è un luogo, uno spazio magico che definisce le regole della rappresentazione e stabilisce i confini fra il dentro e il fuori. Questo libro è teatro perché parla di un paese fantasma. Perciò un luogo in cui l’opposto del pieno non è il vuoto ma l’assenza.
Il palcoscenico è il luogo dell’assenza perché è il luogo di ogni presenza possibile. E il panico da palcoscenico che altro è se non l’incombere di una parola non detta? Una parola però così essenziale da rendere indicibile ogni altra parola, da rendere impossibile perfino il silenzio, trasformato in quel suo opposto che è l’horror vacui.
Ma un paese fantasma, diversamente dal palcoscenico del teatro, è il luogo di una rappresentazione già avvenuta. Occorre una sensibilità particolare per ricercarne le tracce senza cancellarle. E una delicatezza rara per dare verità di vita a personaggi il cui contenitore è pur sempre un palcoscenico di muri diroccati.
Carmen Pellegrino tesse il suo merletto con diversi fili che a seconda del momento unisce o separa, così da intrecciarli senza confonderli. Sono immagini che riemergono dalla polvere delle macerie, e là dove prendono sembianze umane le figure si colorano e si riempiono di sangue e respiro.
Fra tutti la protagonista Estella, io narrante, come un virgilio accompagna il lettore nel mondo dei morti. Viva ma evanescente lei stessa a causa della sua propensione a dialogare con le voci del passato. Intrecciando la sua storia con le loro si riconsegna a quel mondo scomparso.
… tornai alle montagne, tornai agli spuntoni dove cielo e pietra si toccano, sperando di avervi un ritorno. Un ritorno al freddo, che ha le sue beatitudini. Alle cose piccole, che hanno confini certi. Alle tombe scosse dei vecchi abitanti. Qui, fra montagna e montagna, cercai di ricomporre i pezzi, perché c’è modo e modo di salvarsi. Della salvezza perpetua ho sempre diffidato, anzi non ci ho mai creduto. La salvezza provvisoria – la salvezza tipica degli scampati, questa salvezza fragile dei sopravvissuti – sento che può appartenermi…
Intorno a lei si affollano gli abitanti di un tempo, con le loro storie dolenti, in cui talvolta l’ignoranza toglie quel poco che la povertà aveva lasciato, perché in certi ambienti poveri parlare di felicità assomiglia a una bestemmia.
Per capire come l’Autrice sia arrivata alla costruzione del romanzo è utile leggere la nota finale, in cui si scopre che Alento è un paese di fantasia ispirato a un paese reale ma lasciato volutamente all’anonimato di un prototipo. Si scopre anche quanto ci sia di autobiografico nel rapporto con i vecchi muri.
Sono nata in uno di quei luoghi scampati dove il passato e il presente si toccano (…) Io stessa ho vissuto in una grande casa che mi dirupava addosso, negli anni in cui si hanno tutte le possibilità davanti, oppure non se ne ha nessuna. Immersa com’ero nel silenzio, varcavo spesso la soglia di una casa abbandonata e immaginavo il ritorno di quelli che l’avevano abitata. Quasi sempre cambiavo i loro destini.
Questa l’origine del percorso, che poi la Pellegrino traccia con uno stile letterario raffinatissimo, a tratti estetizzante.
di Giovanna Repetto
Dunque a fare teatro è un luogo, uno spazio magico che definisce le regole della rappresentazione e stabilisce i confini fra il dentro e il fuori. Questo libro è teatro perché parla di un paese fantasma. Perciò un luogo in cui l’opposto del pieno non è il vuoto ma l’assenza.
Il palcoscenico è il luogo dell’assenza perché è il luogo di ogni presenza possibile. E il panico da palcoscenico che altro è se non l’incombere di una parola non detta? Una parola però così essenziale da rendere indicibile ogni altra parola, da rendere impossibile perfino il silenzio, trasformato in quel suo opposto che è l’horror vacui.
Ma un paese fantasma, diversamente dal palcoscenico del teatro, è il luogo di una rappresentazione già avvenuta. Occorre una sensibilità particolare per ricercarne le tracce senza cancellarle. E una delicatezza rara per dare verità di vita a personaggi il cui contenitore è pur sempre un palcoscenico di muri diroccati.
Carmen Pellegrino tesse il suo merletto con diversi fili che a seconda del momento unisce o separa, così da intrecciarli senza confonderli. Sono immagini che riemergono dalla polvere delle macerie, e là dove prendono sembianze umane le figure si colorano e si riempiono di sangue e respiro.
Fra tutti la protagonista Estella, io narrante, come un virgilio accompagna il lettore nel mondo dei morti. Viva ma evanescente lei stessa a causa della sua propensione a dialogare con le voci del passato. Intrecciando la sua storia con le loro si riconsegna a quel mondo scomparso.
… tornai alle montagne, tornai agli spuntoni dove cielo e pietra si toccano, sperando di avervi un ritorno. Un ritorno al freddo, che ha le sue beatitudini. Alle cose piccole, che hanno confini certi. Alle tombe scosse dei vecchi abitanti. Qui, fra montagna e montagna, cercai di ricomporre i pezzi, perché c’è modo e modo di salvarsi. Della salvezza perpetua ho sempre diffidato, anzi non ci ho mai creduto. La salvezza provvisoria – la salvezza tipica degli scampati, questa salvezza fragile dei sopravvissuti – sento che può appartenermi…
Intorno a lei si affollano gli abitanti di un tempo, con le loro storie dolenti, in cui talvolta l’ignoranza toglie quel poco che la povertà aveva lasciato, perché in certi ambienti poveri parlare di felicità assomiglia a una bestemmia.
Per capire come l’Autrice sia arrivata alla costruzione del romanzo è utile leggere la nota finale, in cui si scopre che Alento è un paese di fantasia ispirato a un paese reale ma lasciato volutamente all’anonimato di un prototipo. Si scopre anche quanto ci sia di autobiografico nel rapporto con i vecchi muri.
Sono nata in uno di quei luoghi scampati dove il passato e il presente si toccano (…) Io stessa ho vissuto in una grande casa che mi dirupava addosso, negli anni in cui si hanno tutte le possibilità davanti, oppure non se ne ha nessuna. Immersa com’ero nel silenzio, varcavo spesso la soglia di una casa abbandonata e immaginavo il ritorno di quelli che l’avevano abitata. Quasi sempre cambiavo i loro destini.
Questa l’origine del percorso, che poi la Pellegrino traccia con uno stile letterario raffinatissimo, a tratti estetizzante.
di Giovanna Repetto
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