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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Roberto Sacchetti

Cascina e castello

Fermenti edizioni, Pag. 120 Euro 14,00
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Apparso a puntate su "Il Museo di Famiglia" (1875) e "Serate italiane" (1876), venne pubblicato in volume nel 1878: 130 anni dopo torna a disposizione dei lettori italiani, grazie alla curatela di Francesco Lioce per i tipi di Fermenti. A due anni di distanza da Candaule (1879; 2007) un altro romanzo breve dell'obliato scapigliato Sacchetti è stato strappato alla polvere e al silenzio. Riconoscente, ringrazio.

Croce scriveva che il Sacchetti si era formato nella Torino del 1850-1860 nel culto della patria, della famiglia, del lavoro, del dovere e del sacrifizio, che erano per lui cose e non parole, realtà che si vedeva attorno (pag. 19): rimase una speranza troncata dalla morte, un autore dalle potenzialità inespresse, scomparso a Roma nel 1881 a soli 34 anni.

Questo suo romanzo breve è – secondo Bigazzi – la storia quasi pre-verghiana di un contadino che a poco a poco si è impadronito di tutti i beni dei suoi nobili signori (pag. 3); Lioce considera il protagonista, Giacomo Bellardi, splendida prefigurazione in miniatura di Mastro Don Gesualdo (pag. 10) e giudica il realismo di Sacchetti sintetico, scarso di dettagli ed evocativo (pag. 16). Pare di poter affermare, sulla base delle indicazioni dei critici, che Sacchetti sia una sorta di anello di congiunzione tra Scapigliatura e Verismo. Mi sembra la definizione più adatta, il più fertile viatico alla comprensione dello spirito e dello stile dell'opera.

Veniamo alla trama. 1848. Siamo ad Ormeto, nell'Astigiana: il vecchio castello longobardo che un tempo dominava la spianata in cima alla collina, umiliando la cascina dei contadini, ai suoi piedi, è adesso diroccato, mentre la cascina s'è fatta caseggiato, alzandosi d'un piano: "quel che l'uno perdeva l'altra guadagnava", scrive Sacchetti. Sin quando la cascina non aveva sfondato il bastione, conquistandolo e integrandolo, sgranandolo e riducendolo in stalla. Proprio mentre stava per essere del tutto abbattuto, "le picche si arrestarono come per incanto", e principiò una tregua che durava già da dieci anni.

La vecchia Contessa stava per morire, assistita amorevolmente dalla nipote. Intanto, Giacomo Bellardi, 87 anni, sonnecchiava di fronte al nipote; il vecchio attendeva l'annuncio della morte della signora, per appropriarsi finalmente di tutto quel che gli spettava; e intanto andava sfogliando le carte delle progressive acquisizioni del terreno, e della fortezza, ripercorrendone la storia e le diatribe assieme ai suoi uomini.

Quando sale nelle stanze della signora, Giacomo rivendica la sua scalata: a partire da quando, nel 1782, il conte l'aveva schiaffeggiato e scacciato nella stalla – lui era solo un bambino – perché l'aveva scoperto a spiare lui e la sua consorte. Egli rideva come te... la bestia - dice a Maurizio, speciale assistente, non un parente ma una sorta di consigliori - Ora il mio posto è qui, e i suoi pari... non hanno neppur più la stalla. Fra pochi giorni la unica sua discendente sarà in mezzo alla strada... ed io sarò... io sarò ancora... qui (pag. 61).

Il conflitto di classe è acceso e irrimediabile: un odio atavico e invincibile separa i vecchi dai nuovi potenti. Lo scenario, altrove, non è diverso: è in atto un passaggio di consegne da una classe sociale all'altra, da uno a un altro stile, da un mondo a un altro: È uno spettacolo mirabile, fantastico. Qua e là spiccano sull'azzurro pallido del cielo profili neri, bizzarri come di scogli sgretolati dai marosi. Erano i castelli di Corsione, di Mirabella, di Albereto, e sono adesso mucchi di rottami, sfasciumi di muri cadenti. Sotto, a mezza costa appaiono nell'ombra caseggiati vasti, bassi, quadrati, deformi: le case dei ricchi (p. 66).

L'antica aristocrazia – proprio come i suoi famigli, come un personaggio di questo racconto, Pasquale – guarda con cautela ai sotterfugi dei nuovi ricchi: Se sapesse come la conosco io quella razza lì; quando fanno bella cera è quando ne studiano qualcuna delle più triste; essi non sono come noi, non parlano per farsi capire ma per non lasciarsi capire (pag. 80): la preoccupazione non è tanto più quella di perdere le proprietà – è già avvenuto – quando quella dell'imbastardimento della razza – dei suoi principi, dei suoi valori, della sua visione del mondo.

Il nipote di Giacomo, Giulio, torinese di residenza e di studi (Medicina), s'avvicina alla nipote della Contessa con umanità e dolcezza, e sembra che tra loro stia nascendo qualcosa: simbolicamente, ecco che il loro amore fonderà le due diverse tradizioni e le due diverse classi, salvando la giovane signora dalla povertà e dalle difficoltà di costruirsi una vita senza avere più niente e nessuno alle spalle.

Quanta diversità tra quelle due teste! - Quella di Giulio, bruna, barbuta, dai lineamenti un po' duri, coi capelli corti, neri, indocili, ricorda l'origine umile della famiglia, mostra la perseveranza, la forza di proposito della gente nuova. Quella di Maria, bionda, pallida, delicata, ha tutte le grazie, le finezze, il languore dell'aristocrazia, si china verso lo sposo come in cerca di un sostegno (pag. 101).

Infine, alla morte del vecchio Giacomo, anni dopo, le nuove generazioni di eredi restituiranno umanità e grazia al vecchio castello, popolandolo con stile e sentimento. L'antico scontro non ha più ragione di esistere, e in sogno, forse, i nonni si sono già riappacificati.

Petrocchi, caustico, asseriva d'aver riscontrato nell'opera una sproporzione tra la materia del contrasto sociale e la condotta patetica del linguaggio", per via di "eccessiva emotività (p. 6); di tutt'altro avviso Lioce, che osserva come Sacchetti non si lasci commuovere nell'affrontare soggetti dolorosi: formule stilistiche e struttura narrativa fanno intravedere la consapevole adozione di un tono impersonale (p. 8). Personalmente non ho individuato nemmeno io tracce del patetismo riconosciuto da Petrocchi; frenesia e rapidità nello sviluppo dell'intreccio, e un pizzico di negligenza – dialoghi esclusi – in più di un frangente. Il ritmo è febbrile, a tratti singultico, e certe ellissi sono talmente estese da sembrare favolistiche. L'intento didascalico di cantare una società nata dalla fusione di classi sociali un tempo nemiche sfocia in un sentimentalismo prevedibile, ma non per questo sgradevole o retorico: è così che un patriota sognava andassero le cose, è così che tutti avremmo voluto fossero. Armoniose, finalmente, dopo secolari disordini.



di Gianfranco Franchi


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