RECENSIONI
Fulvio Wetzl
Ci troviamo a Timisoara
ExCogita, Pag. 255 Euro 13,43
Ecco chi era! Dicevo: "Ma io questo lo conosco!" E però, non mi veniva in mente chi càpperi fosse. Ora, leggo sul retro di questo suo romanzo d'esordio (vabbe', un po' datato: luglio 2001) che Fulvio Wetzl è il regista di Quattro figli unici . Film d'idee (buone), d'ambienti (insoliti), di recitazione (ottima. Un nome solo: Roberto Citran). Ed espressione d'un arco d'affetti al giusto punto di maturazione, né troppo aspri, né melensi o peggio rancidi. A trovargli degli antenati, si potrebbe incuginarlo ai Franco Brusati, ai Franco Rossi, insomma agli appartenenti al cinema italiano più franco (e qui la sinderesi mostra tutto il suo splendore). Oltretutto, benché la città rumena abbia pochissimo gioco nell'economia del testo, (sebbene si possa leggere il titolo come un provocatorio stato in luogo) e appena si accenni a Bratislava, càpita che siano essi luoghi evocatori in me di mostruosi ricordi d'adolescenza - ognuno ha le maddalene che si merita...
Sòn dunque zompàto come un vecchio procione (allora te le cerchi!) su questo dignitoso romanzo, per ragioni - l'ho detto - extratestuali: e v'ho ritrovato i pregi del regista - e alcuni difetti - e un sano gusto che non provavo più da tempo, quello delle letture ragazze (ottanta chili fa, dunque: se non maremma maiala, almeno destino suino, come titola il postfatore). Sdraiato sul letto a trippa in giù, mi sono bevuto il romanzo, godendo d'una lettura che, in virtù dell'acquisita toscanità dell'Autore, battezzerò "a bìschero" - spensierata e famelica. Corsivo e corsaro, ma non corrivo, Wetzl sa narrare (è difatti un raccontatore, più che uno scrittore) i fatterelli di un paesotto, Poggio Saturnino, modesto e mediocre: che dunque ha perso l'antica natura natìa e selvatica, e però non è riuscito nel "salto di qualità", dotarsi cioè d'un'hinterland medioindustrioso, o definitivamente cristallizzarsi in museo vivente, in set cinematografico (ricordate la "Medievonia"di Futureworld - il film in cui Yul Brinner faceva l'androide?)"d'un film povero, appunto, dove tutto è già tracciato". (p. 11 e segg.) Rifugiandosi in una stolida e arcaica meccanica della vita che si esprime in chiaro come meccanica della morte: tant'è più lunga la coda al funerale, tanto più il trapassato meritò da presente al mondo, e le smorfie filodrammatiche dell'occasione non son altro che rituale, séguito all' usanze ossificate che governano il costume del paese. (cfr. p. 129)
Tale discorso sull'identità porta il testo, ed è espresso attraverso un ben articolato reticolo di fatti e persone: sullo sfondo, vediamo comprimari fissarsi in una loro ossessiva singolarità, così da scolpirsi in modo eccentrico ma inequivoco - il palio dei buffi del villaggio, il meccanico genialoide e inutile - e darsi in tal maniera un carattere definito. E veniamo a sapere (p. 78) che il co-protagonista, film-maker di modesto successo, da dieci anni s'è trasferito al comune rustico, e sente d'aver pagato professionalmente questa sua lontananza dal centro, da dove le cose accadono, non sono solo riporti. E ciò è avvenuto, peraltro, senza essersi integrato nella comunità - della quale, con pragmatica sanzione, ricorda la cecità, la chiusura, il "fare gruppo", che può in ogni momento sfociare nell'odio aperto, nella crudeltà sino al linciaggio, non solo dello straniero, ma di chiunque - per quanto conosciuto, frequentato, imbozzolato nel "pagus" - si avverta (o si venga istigati a riconoscere) come diverso. L'Autore ricorda il massacro degli ebrei occorso in quelle plaghe a fine Settecento, (*) evoca la recente pulizia e(s)tnica, e considera che solo i nativi possono - "senza capirlo magari, limitandosi a viverlo" - assimilarsi a un luogo. (pp. 81-2) Nei Sessanta, necessariamente si descriveva la distruzione delle entità particolari, assieme alla fatica psicologica, alla ferita mai rimarginata, dello scardinamento migratorio dalla defunta vita rurale alla città-Moloch elettromeccanico: e le illusioni di risolvere ogni problema con dieci, cento, mille Fiat. Oggi, con buona mano, Wetzl (prima di Carlotto) commenta il naufragio del "piccolo è bello", del modello Tuscanyshire-nordestino dell'elitismo cocciaròlo e dei padroncini del quartierino, e la parallela o susseguente incapacità degli uomini a trovare un amalgama, a fare squadra.
E qui (si ricordi il suddetto "fare gruppo") scatta il secondo ben congegnato meccanismo del romanzo, quello delle opposizioni - "la stessa energia che fa un effetto si corregge nell'effetto opposto" (C. Pavese): e Paolo Rossi non rimarcava "senza capitan Uncino, Peter Pan sarebbe stato solo una checchìna isterica"? Difatti, ogni scena ha una controscena, e a uno spìcchio di vita un secondo spìcchio s'oppone, a fargli specchio. Il paese guasto - ma avvertibile come tale - della Rumenia svela l'identico marcio latente nell'ammirevole campagna meditaliana; il regista "disintegrato" fa da controvoce al Samuele protagonista, insegnante e allenatore della locale squadretta di pallavolo, esempio di coesione tra entità inomogenee e di contrasto sia all'artista, sia al ricordato imbrancarsi maligno che cova sotto la cenere del benessere; la leucemia tramuta la vitale giovinezza d'una ragazza del volley in un tirocinio alla morte; il coach contesta il fratello maggiore "di successo", che però gioca un tiro mancino al sangue del suo sangue, in nome del contesto granglobale che si oppone a una moralità che ha tratti di campanilismo (il tifo per la compagine locale), così come la borghesia moderna scaccia il feudo; infine, l'ethos del director cede dinanzi alla sottopratica del governo locale, mettendo "contro sé stesso sé" per organizzare una sciocca e scioccante "sagra della fertilità". Vero è che l'Artiere compromesso può invocare il certificato medico della propria fragile antropologia: già deracinàto del suo, adduce inoltre come scusa il suo invecchiamento professionale (pp. 112, 199, 215) per giustificarsi. Motivo che interessa pure in generale: in positivo, siccome l'artista isolato invecchia, la sua forza creativa diminuisce se non si nutre del clamore dei suoi simili, se non si rifa, da maestro a maestro, all'opera altrui. E in negativo, perché rivela la tendenza del lavoratore d'arte (in specie quello nostrano) a cercarsi sempre maestri o conventicole dai quali farsi adottare, esaminare, certificare. Deve, al contrario, arrivare un momento in cui s'acquista una sicurezza tale che si può sedere in fabbrica o nel proprio (magari perverso) laboratorio, e decantarsi.
L'Autore dunque reca un testo di complicata semplicità, in cui si fa contrabbando di cose dolorose nella sembianza scanzonata, e dove ogni mina trova una preparata contromina nel contenuto, mantenendo fluida la forma: una tendenza, quest'ultima, che ci sembra esser dominante nella letteratura odierna, ove quel che eventualmente deve richiedere uno sforzo d'interpretazione al Lettore giace nel susseguirsi melodico della trama, non nel rigoglio armonico della frase - il barocco, peraltro, chiama a seguirlo il rococò.
Mi sono dilungato sulle bellùrie del libro, sarò più stringato sulle manchevolezze: dico che parto prevenuto, m'attirano gli scrittori, meno i raccontatori. Tale è Wetzl: in lui il personaggio è veicolo e non principio attivo. Tant'è che il raccontatore poi ti deve raccontare (appunto) un sacco di robìne che lo scrittore può dare per garantite, siccome sono tutte nel linguaggio che impiega per delineare gli attori (fatta la tara sulle pagine "corali" o sugli sperimenti in tal senso: Meneghello, il giovine Parise). Dunque: nella post-fazione si vanta la presa dal vero degli interpreti di questo libro. Se è, è un'aggravante, perché quel che Wetzl riesce a fare complessivamente - il discorso sull'identità - va a cadere proprio esaminando i dialoghi, che sono le "facce", le foto segnaletiche, degli agonisti. Io riconosco Tizio, quando lo incontro, per la sua fisionomia: e - senza scomodare i Numi - vedo nella voce del ragazzo Tìbi il colore d'una coscienza insicura che non s'avverte nel parlato della meno coinvolta ragazza Tàscia, (**) pur nel fondo comune del dialetto trasfuso verghianamente in lingua. Qui, e spiace dirlo di chi per mestiere ha a che vedere con le immagini, avviene come nei quadri della pittura "bituminosa", dove o si ultraevidenziano i tratti (cioè si fan grotteschi o caricatura), o scompaiono nel catrame dello sfondo. Siamo d'accordo che il bozzetto è improponibile, e che la tv ha omologato l'omologabile e pure il resto (lo si ammette in quarta di copertina): ma guai all'artista a cui le difficoltà tolgono idee, e non ne dànno. Ci sono problemi la cui soluzione consiste nella ricerca della soluzione: per chi scrive la resa dei personaggi, ahinoi, è uno di questi. E si nota l'impaccio dell'Autore nel raggiungerla, dalla goffaggine degli inserti dialettali: campionando, leggo (p. 29) un romanaccio "te sei ripulito" che nel vernacolo ha tutt'altro senso da quello attribuitogli da Wetzl, meglio da rendersi con un "acchittàto", o un meno recente "impàinato".
Ad ogni modo, per carente che sia in quest'occasione, l'Autore si offre come lettura più che buona, come uno di quei piccoli maestri di cicli o robbiane da ammirare nei borghi della claudicante Italia, il cui occhio ha colto con perspicuità il quadro della natura e della società che lo circonda. Non è poco.
Ultimo avviso: da evitare assolutamente, titolo a parte, la post-fazione.
(*)Lettore, se vuoi cercalo notato in Attilio Brilli, Il viaggio in Italia, il Mulino, Bologna 2006;
(**)protagonisti adolescenti del bel romanzo di Saverio Strati Tìbi e Tàscia, Mondadori, Milano 1976.
di Marco Lanzòl
Sòn dunque zompàto come un vecchio procione (allora te le cerchi!) su questo dignitoso romanzo, per ragioni - l'ho detto - extratestuali: e v'ho ritrovato i pregi del regista - e alcuni difetti - e un sano gusto che non provavo più da tempo, quello delle letture ragazze (ottanta chili fa, dunque: se non maremma maiala, almeno destino suino, come titola il postfatore). Sdraiato sul letto a trippa in giù, mi sono bevuto il romanzo, godendo d'una lettura che, in virtù dell'acquisita toscanità dell'Autore, battezzerò "a bìschero" - spensierata e famelica. Corsivo e corsaro, ma non corrivo, Wetzl sa narrare (è difatti un raccontatore, più che uno scrittore) i fatterelli di un paesotto, Poggio Saturnino, modesto e mediocre: che dunque ha perso l'antica natura natìa e selvatica, e però non è riuscito nel "salto di qualità", dotarsi cioè d'un'hinterland medioindustrioso, o definitivamente cristallizzarsi in museo vivente, in set cinematografico (ricordate la "Medievonia"di Futureworld - il film in cui Yul Brinner faceva l'androide?)"d'un film povero, appunto, dove tutto è già tracciato". (p. 11 e segg.) Rifugiandosi in una stolida e arcaica meccanica della vita che si esprime in chiaro come meccanica della morte: tant'è più lunga la coda al funerale, tanto più il trapassato meritò da presente al mondo, e le smorfie filodrammatiche dell'occasione non son altro che rituale, séguito all' usanze ossificate che governano il costume del paese. (cfr. p. 129)
Tale discorso sull'identità porta il testo, ed è espresso attraverso un ben articolato reticolo di fatti e persone: sullo sfondo, vediamo comprimari fissarsi in una loro ossessiva singolarità, così da scolpirsi in modo eccentrico ma inequivoco - il palio dei buffi del villaggio, il meccanico genialoide e inutile - e darsi in tal maniera un carattere definito. E veniamo a sapere (p. 78) che il co-protagonista, film-maker di modesto successo, da dieci anni s'è trasferito al comune rustico, e sente d'aver pagato professionalmente questa sua lontananza dal centro, da dove le cose accadono, non sono solo riporti. E ciò è avvenuto, peraltro, senza essersi integrato nella comunità - della quale, con pragmatica sanzione, ricorda la cecità, la chiusura, il "fare gruppo", che può in ogni momento sfociare nell'odio aperto, nella crudeltà sino al linciaggio, non solo dello straniero, ma di chiunque - per quanto conosciuto, frequentato, imbozzolato nel "pagus" - si avverta (o si venga istigati a riconoscere) come diverso. L'Autore ricorda il massacro degli ebrei occorso in quelle plaghe a fine Settecento, (*) evoca la recente pulizia e(s)tnica, e considera che solo i nativi possono - "senza capirlo magari, limitandosi a viverlo" - assimilarsi a un luogo. (pp. 81-2) Nei Sessanta, necessariamente si descriveva la distruzione delle entità particolari, assieme alla fatica psicologica, alla ferita mai rimarginata, dello scardinamento migratorio dalla defunta vita rurale alla città-Moloch elettromeccanico: e le illusioni di risolvere ogni problema con dieci, cento, mille Fiat. Oggi, con buona mano, Wetzl (prima di Carlotto) commenta il naufragio del "piccolo è bello", del modello Tuscanyshire-nordestino dell'elitismo cocciaròlo e dei padroncini del quartierino, e la parallela o susseguente incapacità degli uomini a trovare un amalgama, a fare squadra.
E qui (si ricordi il suddetto "fare gruppo") scatta il secondo ben congegnato meccanismo del romanzo, quello delle opposizioni - "la stessa energia che fa un effetto si corregge nell'effetto opposto" (C. Pavese): e Paolo Rossi non rimarcava "senza capitan Uncino, Peter Pan sarebbe stato solo una checchìna isterica"? Difatti, ogni scena ha una controscena, e a uno spìcchio di vita un secondo spìcchio s'oppone, a fargli specchio. Il paese guasto - ma avvertibile come tale - della Rumenia svela l'identico marcio latente nell'ammirevole campagna meditaliana; il regista "disintegrato" fa da controvoce al Samuele protagonista, insegnante e allenatore della locale squadretta di pallavolo, esempio di coesione tra entità inomogenee e di contrasto sia all'artista, sia al ricordato imbrancarsi maligno che cova sotto la cenere del benessere; la leucemia tramuta la vitale giovinezza d'una ragazza del volley in un tirocinio alla morte; il coach contesta il fratello maggiore "di successo", che però gioca un tiro mancino al sangue del suo sangue, in nome del contesto granglobale che si oppone a una moralità che ha tratti di campanilismo (il tifo per la compagine locale), così come la borghesia moderna scaccia il feudo; infine, l'ethos del director cede dinanzi alla sottopratica del governo locale, mettendo "contro sé stesso sé" per organizzare una sciocca e scioccante "sagra della fertilità". Vero è che l'Artiere compromesso può invocare il certificato medico della propria fragile antropologia: già deracinàto del suo, adduce inoltre come scusa il suo invecchiamento professionale (pp. 112, 199, 215) per giustificarsi. Motivo che interessa pure in generale: in positivo, siccome l'artista isolato invecchia, la sua forza creativa diminuisce se non si nutre del clamore dei suoi simili, se non si rifa, da maestro a maestro, all'opera altrui. E in negativo, perché rivela la tendenza del lavoratore d'arte (in specie quello nostrano) a cercarsi sempre maestri o conventicole dai quali farsi adottare, esaminare, certificare. Deve, al contrario, arrivare un momento in cui s'acquista una sicurezza tale che si può sedere in fabbrica o nel proprio (magari perverso) laboratorio, e decantarsi.
L'Autore dunque reca un testo di complicata semplicità, in cui si fa contrabbando di cose dolorose nella sembianza scanzonata, e dove ogni mina trova una preparata contromina nel contenuto, mantenendo fluida la forma: una tendenza, quest'ultima, che ci sembra esser dominante nella letteratura odierna, ove quel che eventualmente deve richiedere uno sforzo d'interpretazione al Lettore giace nel susseguirsi melodico della trama, non nel rigoglio armonico della frase - il barocco, peraltro, chiama a seguirlo il rococò.
Mi sono dilungato sulle bellùrie del libro, sarò più stringato sulle manchevolezze: dico che parto prevenuto, m'attirano gli scrittori, meno i raccontatori. Tale è Wetzl: in lui il personaggio è veicolo e non principio attivo. Tant'è che il raccontatore poi ti deve raccontare (appunto) un sacco di robìne che lo scrittore può dare per garantite, siccome sono tutte nel linguaggio che impiega per delineare gli attori (fatta la tara sulle pagine "corali" o sugli sperimenti in tal senso: Meneghello, il giovine Parise). Dunque: nella post-fazione si vanta la presa dal vero degli interpreti di questo libro. Se è, è un'aggravante, perché quel che Wetzl riesce a fare complessivamente - il discorso sull'identità - va a cadere proprio esaminando i dialoghi, che sono le "facce", le foto segnaletiche, degli agonisti. Io riconosco Tizio, quando lo incontro, per la sua fisionomia: e - senza scomodare i Numi - vedo nella voce del ragazzo Tìbi il colore d'una coscienza insicura che non s'avverte nel parlato della meno coinvolta ragazza Tàscia, (**) pur nel fondo comune del dialetto trasfuso verghianamente in lingua. Qui, e spiace dirlo di chi per mestiere ha a che vedere con le immagini, avviene come nei quadri della pittura "bituminosa", dove o si ultraevidenziano i tratti (cioè si fan grotteschi o caricatura), o scompaiono nel catrame dello sfondo. Siamo d'accordo che il bozzetto è improponibile, e che la tv ha omologato l'omologabile e pure il resto (lo si ammette in quarta di copertina): ma guai all'artista a cui le difficoltà tolgono idee, e non ne dànno. Ci sono problemi la cui soluzione consiste nella ricerca della soluzione: per chi scrive la resa dei personaggi, ahinoi, è uno di questi. E si nota l'impaccio dell'Autore nel raggiungerla, dalla goffaggine degli inserti dialettali: campionando, leggo (p. 29) un romanaccio "te sei ripulito" che nel vernacolo ha tutt'altro senso da quello attribuitogli da Wetzl, meglio da rendersi con un "acchittàto", o un meno recente "impàinato".
Ad ogni modo, per carente che sia in quest'occasione, l'Autore si offre come lettura più che buona, come uno di quei piccoli maestri di cicli o robbiane da ammirare nei borghi della claudicante Italia, il cui occhio ha colto con perspicuità il quadro della natura e della società che lo circonda. Non è poco.
Ultimo avviso: da evitare assolutamente, titolo a parte, la post-fazione.
(*)Lettore, se vuoi cercalo notato in Attilio Brilli, Il viaggio in Italia, il Mulino, Bologna 2006;
(**)protagonisti adolescenti del bel romanzo di Saverio Strati Tìbi e Tàscia, Mondadori, Milano 1976.
di Marco Lanzòl
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