RECENSIONI
David Lipsky
Come diventare se stessi (DFW si racconta)
Minimum fax, Pag. 435 Euro 18,50
Leggere questa lunga intervista a David Foster Wallace vale leggere un classico. Dico un classico di quelli veri, che non si leggono per dovere ma per piacere, di quelli che infondono vita aggiuntiva a quella del lettore, lo rianimano, gli ricordano che esiste qualcosa oltre le macerie e le brutture di cui sembra fatta spesso la vita. Leggere David Lipsky che intervista questo genio assoluto (perché un genio lo era davvero, DFW, a prescindere da quanto funzionassero i suoi romanzi, i suoi racconti, quanto potesse pure annoiare in certi momenti, quanto potesse risultare ripetitivo in una raccolta come Oblio per esempio, quanto fosse ovvio saltare le pagine nel monstrum di Infinite Jest: l'ultimo decennio del secolo scorso, quanto a letteratura americana, anche se non sono mancati ottimi scrittori accanto ai già consolidati, è il suo), sentirlo parlare (perché è quello che sembra accadere in Come diventare se stessi) è un'esperienza tanto entusiasmante quanto commovente. È difficile trovare scrittori alla cui intelligenza inarrivabile puoi sperare di aggiungere un sentimento di così viva partecipazione all'incontro – non ne ho esperienza diretta ma la virtù del lavoro di Lipsky, giornalista e scrittore a sua volta, sta in questo – ossia la sensazione che un umano bello grande e grosso, con quel modo di vestirsi, per dire, e la bandana, l'ultimo cui un ignaro avrebbe dato una lira di credibilità, portasse in dote al mondo una macchina immaginativa e un coinvolgimento diretto così caloroso tutto insieme, a quell'altezza lì, intendo – roba rara.
Il viaggio-conversazione del duo segue il tour promozionale del monstrum, dura cinque giorni durante i quali, a registratore acceso, l'autore de La ragazza dai capelli strani, parla di tutto, di se stesso, intanto, dei problemi personali che lo porteranno anni dopo al suicidio, di rapporti umani, letteratura, politica – a volte, di niente. È il marzo del 1996. DFW comincia a fare i conti con il fatto di essere diventato una star. Confessa di aver sperato di "rimediarci un po' di sesso" con la notorietà, cosa che non è successa perché nonostante molte donne in America mostrassero verso di lui un notevole indice di gradimento, non gli andava di "passare per uno che usa il successo del libro come merce di scambio sessuale". L'eventuale incrinarsi avrebbe messo a repentaglio il suo precario equilibrio, non farsi distrarre in fondo, come scrittore, non farsi destabilizzare, probabilmente, come essere umano.
Il lettore constata facilmente come le parole di Lipsky nell'introduzione non siano niente affatto iperboliche. Scrive che "David aveva il dono della caffeina: era di una vivacità affascinante, intensa, travolgente". Che "i suoi discorsi hanno lo stesso suono delle sue pagine". Dalla registrazione dell'intervista tutto questo si vede eccome. Forse perché non smettono di coesistere timidezza, insicurezze confessate e vertiginosa proliferazione di idee, tanto da chiedersi come abbia potuto convivere con la depressione profonda, e con l'attrito micidiale che di solito gli antidepressivi provocano sulla creatività, la brillantezza mai meramente spettacolare del suo ingegno. Ce lo domandiamo tutti. DFW, che all'epoca non credeva di poter avere rapporti troppo stabili con le donne, che come Hal, uno dei personaggi di Infinite Jest, era "geneticamente predisposto per la dipendenza dalle sostanze chimiche", che riduce la differenza coi tanti tossici che popolano l'America a un fatto accidentale, a una questione di interessi, quello che lui aveva la fortuna di nutrire per la letteratura. I libri, al momento di questa conversazione che precede di dodici anni il tragico gesto che hanno messo fine alla sua vita, ancora lo salvano. E i veri libri, per lui, non sono intrattenimento, e l'intrattenimento ("un piacere passivo") non è arte.
DFW sa quanto la nozione di realismo sia precaria, però trova necessario uccidere simbolicamente John Barth, il padre del postmoderno, ché il postmoderno non basta più; e trova la letteratura sperimentale per lo più molto noiosa; teme il rischio che le sue opere possano essere scambiate per quei flussi infiniti in cui uno lascia passare nella scrittura qualsiasi pensiero – cosa che secondo lui fa John Updike, una persona afflitta, dice all'altro David, da "seri disturbi mentali", e "molto, molto cattiva".
Ricorda Lipsky che per DFW i libri esistono "per farti smettere di sentirti solo". Questo riesce benissimo nell'impresa.
di Michele Lupo
Il viaggio-conversazione del duo segue il tour promozionale del monstrum, dura cinque giorni durante i quali, a registratore acceso, l'autore de La ragazza dai capelli strani, parla di tutto, di se stesso, intanto, dei problemi personali che lo porteranno anni dopo al suicidio, di rapporti umani, letteratura, politica – a volte, di niente. È il marzo del 1996. DFW comincia a fare i conti con il fatto di essere diventato una star. Confessa di aver sperato di "rimediarci un po' di sesso" con la notorietà, cosa che non è successa perché nonostante molte donne in America mostrassero verso di lui un notevole indice di gradimento, non gli andava di "passare per uno che usa il successo del libro come merce di scambio sessuale". L'eventuale incrinarsi avrebbe messo a repentaglio il suo precario equilibrio, non farsi distrarre in fondo, come scrittore, non farsi destabilizzare, probabilmente, come essere umano.
Il lettore constata facilmente come le parole di Lipsky nell'introduzione non siano niente affatto iperboliche. Scrive che "David aveva il dono della caffeina: era di una vivacità affascinante, intensa, travolgente". Che "i suoi discorsi hanno lo stesso suono delle sue pagine". Dalla registrazione dell'intervista tutto questo si vede eccome. Forse perché non smettono di coesistere timidezza, insicurezze confessate e vertiginosa proliferazione di idee, tanto da chiedersi come abbia potuto convivere con la depressione profonda, e con l'attrito micidiale che di solito gli antidepressivi provocano sulla creatività, la brillantezza mai meramente spettacolare del suo ingegno. Ce lo domandiamo tutti. DFW, che all'epoca non credeva di poter avere rapporti troppo stabili con le donne, che come Hal, uno dei personaggi di Infinite Jest, era "geneticamente predisposto per la dipendenza dalle sostanze chimiche", che riduce la differenza coi tanti tossici che popolano l'America a un fatto accidentale, a una questione di interessi, quello che lui aveva la fortuna di nutrire per la letteratura. I libri, al momento di questa conversazione che precede di dodici anni il tragico gesto che hanno messo fine alla sua vita, ancora lo salvano. E i veri libri, per lui, non sono intrattenimento, e l'intrattenimento ("un piacere passivo") non è arte.
DFW sa quanto la nozione di realismo sia precaria, però trova necessario uccidere simbolicamente John Barth, il padre del postmoderno, ché il postmoderno non basta più; e trova la letteratura sperimentale per lo più molto noiosa; teme il rischio che le sue opere possano essere scambiate per quei flussi infiniti in cui uno lascia passare nella scrittura qualsiasi pensiero – cosa che secondo lui fa John Updike, una persona afflitta, dice all'altro David, da "seri disturbi mentali", e "molto, molto cattiva".
Ricorda Lipsky che per DFW i libri esistono "per farti smettere di sentirti solo". Questo riesce benissimo nell'impresa.
di Michele Lupo
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