RECENSIONI
Andrea Bonvicini
Come la pioggia
LAB – Perrone Editore, Pag. 86 Euro 12,00
Se si guarda bene la copertina, si noterà che l'angolo in alto a sinistra è occupato da una dicitura che dice: LAB, che sta per laboratorio. Intendasi: laboratorio di scrittura, 'tenuto' dalla Perrone editore in quel di Roma. Personalmente quando vedo queste cose mi vien l'orticaria (credo che Il Paradiso sia stato l'unico, non so se è un vanto, prendetela come vi pare, che ha rifiutato la collaborazione con la Holden di Torino per segnalare eventuali, validi, scrittori), però è anche segno di una vitalità al di fuori della centralità del potere editoriale.
Andrea Bonvicini affronta un 'topos' della letteratura: quello dell'improvviso cambiamento del mondo. Che può avvenire per una catastrofe naturale, per un attentato terroristico (a meno che Israele non decida di intervenire prima, magari con il placet di Fiamma Nirestein), per un virus che stermina il genere umano o chissà quale altra diavoleria.
Bonvicini utilizza l'arma che forse gli è più congeniale: lo stravolgimento delle nostre abitudini, del nostro 'corpo' di essere umani attraverso l'incomprensione del linguaggio. Tutto ad un tratto, il protagonista di questa storia si ritrova ad essere solo e disperato perché non capisce più il senso delle parole (virus is a language, no?). Lo straniamento deriva poi, inevitabilmente, dall'incapacità di comunicare, di rapportarsi con gli altri, elemento essenziale per ogni forma di convivenza.
Però l'autore ci mette di suo: opera una sorta di omeopatica iniezione per una cura della lingua che sembra irriconoscibile: Giacevo per terra, respirando appena e guardando a me stesso mi parve d'essere ormai alla fine, pietosamente stabilizzato e in attesa di una naturale, misericordiosa estinzione, data ormai per certa l'indubitabile infecondità di quel monstrum novum.
Mi permetto: troppa aggettivazione e troppo calcare la mano sul 'signora mia ma che bella scrittura'. Bonvicini non avrebbe bisogno di strafare per convincerci che sa tenere la mano, e invece insiste: Torno cioè alla prima ipotesi. E questo ci pone, per dirla con Testori, in exitu, definitivamente. Definitivamente in exitu: cioè ci ritroviamo (scopriamo?) in nihil ab nihilo. Queste parole (erano su una lapide sepolcrale, o sbaglio?) disegnano un movimento, e c'è qualcuno che questo movimento lo mette in atto. Ab nihilo tracti prima, e poi in nihil relicti, forse anche rejecti. Tertium datur in questo: il rapporto delle nostre parole, ora che ci è negato, assai più chiaramente indica che un terzo poneva la possibilità stessa del rapporto, cioè delle parole.
Francamente mi sembra un Busi alticcio. Ecco perché si parlava di omeopatica iniezione: Bonvicini pensa di risolvere il problema dell'incomunicabilità del presente con una sostanziale incomprensibilità del linguaggio, meglio ancora, di una forzatura ad hoc.
Sbaglia, crediamo: e non ci convince nemmeno il fatto che sta operando per un 'laboratorio' di scrittura. Si capisce che questo è solo farina del suo sacco.
E' un peccato, perché l'autore oltre ad aver capito il nocciolo centrale del nostro stare al mondo ha tentato di darne anche una personalissima chiave di lettura. Esagerata ci sembra. A volte anche inavvertitamente comica. Come quando il protagonista uscendo da un albergo in un mondo ormai vuoto dice: Scelgo quasi sempre gli alberghi anche per i miei brevi sonni. Trovo letti ancora intonsi e scelgo le stanze migliori. All'uscita passo dietro il bancone della reception e striscio la carta di credito che ho ancora con me, unico residuo della civiltà tecnologica e del denaro. Ho ancora una dignità.
Avrai pure una dignità, ma se non firmi la ricevuta è come se non avessi pagato.
Si scherza.
di Alfredo Ronci
Andrea Bonvicini affronta un 'topos' della letteratura: quello dell'improvviso cambiamento del mondo. Che può avvenire per una catastrofe naturale, per un attentato terroristico (a meno che Israele non decida di intervenire prima, magari con il placet di Fiamma Nirestein), per un virus che stermina il genere umano o chissà quale altra diavoleria.
Bonvicini utilizza l'arma che forse gli è più congeniale: lo stravolgimento delle nostre abitudini, del nostro 'corpo' di essere umani attraverso l'incomprensione del linguaggio. Tutto ad un tratto, il protagonista di questa storia si ritrova ad essere solo e disperato perché non capisce più il senso delle parole (virus is a language, no?). Lo straniamento deriva poi, inevitabilmente, dall'incapacità di comunicare, di rapportarsi con gli altri, elemento essenziale per ogni forma di convivenza.
Però l'autore ci mette di suo: opera una sorta di omeopatica iniezione per una cura della lingua che sembra irriconoscibile: Giacevo per terra, respirando appena e guardando a me stesso mi parve d'essere ormai alla fine, pietosamente stabilizzato e in attesa di una naturale, misericordiosa estinzione, data ormai per certa l'indubitabile infecondità di quel monstrum novum.
Mi permetto: troppa aggettivazione e troppo calcare la mano sul 'signora mia ma che bella scrittura'. Bonvicini non avrebbe bisogno di strafare per convincerci che sa tenere la mano, e invece insiste: Torno cioè alla prima ipotesi. E questo ci pone, per dirla con Testori, in exitu, definitivamente. Definitivamente in exitu: cioè ci ritroviamo (scopriamo?) in nihil ab nihilo. Queste parole (erano su una lapide sepolcrale, o sbaglio?) disegnano un movimento, e c'è qualcuno che questo movimento lo mette in atto. Ab nihilo tracti prima, e poi in nihil relicti, forse anche rejecti. Tertium datur in questo: il rapporto delle nostre parole, ora che ci è negato, assai più chiaramente indica che un terzo poneva la possibilità stessa del rapporto, cioè delle parole.
Francamente mi sembra un Busi alticcio. Ecco perché si parlava di omeopatica iniezione: Bonvicini pensa di risolvere il problema dell'incomunicabilità del presente con una sostanziale incomprensibilità del linguaggio, meglio ancora, di una forzatura ad hoc.
Sbaglia, crediamo: e non ci convince nemmeno il fatto che sta operando per un 'laboratorio' di scrittura. Si capisce che questo è solo farina del suo sacco.
E' un peccato, perché l'autore oltre ad aver capito il nocciolo centrale del nostro stare al mondo ha tentato di darne anche una personalissima chiave di lettura. Esagerata ci sembra. A volte anche inavvertitamente comica. Come quando il protagonista uscendo da un albergo in un mondo ormai vuoto dice: Scelgo quasi sempre gli alberghi anche per i miei brevi sonni. Trovo letti ancora intonsi e scelgo le stanze migliori. All'uscita passo dietro il bancone della reception e striscio la carta di credito che ho ancora con me, unico residuo della civiltà tecnologica e del denaro. Ho ancora una dignità.
Avrai pure una dignità, ma se non firmi la ricevuta è come se non avessi pagato.
Si scherza.
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