RECENSIONI
Mia Lecomte
Cronache da un’impossibilità
quarup, Pag. 130 Euro 13,90
Degli uomini mi piace la pelle, l’involucro, il rivestimento. Mi piace stare vicini, vicinissimi e toccare, toccarla. Dove è calda, bollente: sulla nuca, dietro e dentro le orecchie, le ascelle, sulla pancia, dentro gli inguini, le natiche, sotto i testicoli.
Più tiepida: la fronte, il collo, le spalle, la schiena, il sesso rilasciato, le gambe. Più fresca, fresca: le guance, le labbra, l’interno del braccio, il dorso della mano, la pianta dei piedi, le dita intorpidite.
E scrutare dentro gli occhi, attraverso le ciglia, l’iride, le pupille, la cornea, i lobi occipitali, la corteccia, la dura madre.
Sembrerebbe… della serie… un sorriso, un rigo appena.
In realtà ho colto più di un rigo dell’opera narrativa della Lecomte, per far capire dove sta andando e cosa si prefigge.
Non è la prima volta che mi dedico ad un autore/autrice che svolge di più l’attività poetica che quella narrativa. E nella stragrande maggioranza dei casi, l’esito di un prodotto simile ha le sue differenze.
La Lecomte, pur accettando i fraseggi e l’attività seriale della poetessa, opera in un senso che potremmo davvero definire narrativo. E non è cosa semplice a dirsi (tanto più a farsi). Il suo modo di scrivere appartiene, è il caso di dire, allo scrittore patentato, più che al poeta consolidato.
Non è tanto per quello che racconta (se devo essere sincero, preferisco di più le storie sospese che non quelle reali, e L’ospite, per esempio, ha un sua continuità narrativa che non riesco a vedere negli altri racconti), ma per come lo sa incubare, appuntando la sua letteratura, ma non trasformandola come fosse il poeta (poetessa) preso e colto chissà da dove.
La Lecomte è viva ma non stra-viva, come spesso fanno gli inchiostratori della domenica che perdono il loro tempo a esistere, malgrado gli altri.
Ho detto, c’è anche qualcosa che non funziona, che lascia trasparire una ricerca di spirito e linguaggio che va oltre le esperienze dello scrittore. Ma noi possiamo anche aspettare.
Chissà che la redattrice del semestrale di poesia comparata Semicerchio non sia in grado poi di regalarci una profondità in questo caso appena abbozzata.
di Alfredo Ronci
Più tiepida: la fronte, il collo, le spalle, la schiena, il sesso rilasciato, le gambe. Più fresca, fresca: le guance, le labbra, l’interno del braccio, il dorso della mano, la pianta dei piedi, le dita intorpidite.
E scrutare dentro gli occhi, attraverso le ciglia, l’iride, le pupille, la cornea, i lobi occipitali, la corteccia, la dura madre.
Sembrerebbe… della serie… un sorriso, un rigo appena.
In realtà ho colto più di un rigo dell’opera narrativa della Lecomte, per far capire dove sta andando e cosa si prefigge.
Non è la prima volta che mi dedico ad un autore/autrice che svolge di più l’attività poetica che quella narrativa. E nella stragrande maggioranza dei casi, l’esito di un prodotto simile ha le sue differenze.
La Lecomte, pur accettando i fraseggi e l’attività seriale della poetessa, opera in un senso che potremmo davvero definire narrativo. E non è cosa semplice a dirsi (tanto più a farsi). Il suo modo di scrivere appartiene, è il caso di dire, allo scrittore patentato, più che al poeta consolidato.
Non è tanto per quello che racconta (se devo essere sincero, preferisco di più le storie sospese che non quelle reali, e L’ospite, per esempio, ha un sua continuità narrativa che non riesco a vedere negli altri racconti), ma per come lo sa incubare, appuntando la sua letteratura, ma non trasformandola come fosse il poeta (poetessa) preso e colto chissà da dove.
La Lecomte è viva ma non stra-viva, come spesso fanno gli inchiostratori della domenica che perdono il loro tempo a esistere, malgrado gli altri.
Ho detto, c’è anche qualcosa che non funziona, che lascia trasparire una ricerca di spirito e linguaggio che va oltre le esperienze dello scrittore. Ma noi possiamo anche aspettare.
Chissà che la redattrice del semestrale di poesia comparata Semicerchio non sia in grado poi di regalarci una profondità in questo caso appena abbozzata.
di Alfredo Ronci
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