Tasti di scelta rapida del sito: Menu principale | Corpo della pagina

Il Paradiso degli Orchi
Home » Recensioni » Da Grosseto a Milano - la vita breve di Luciano Bianciardi

Pagina dei contenuti


RECENSIONI

Alvaro Bertani

Da Grosseto a Milano - la vita breve di Luciano Bianciardi

ExCogita, Pag. 191 Euro 15,00
immagine
Che cosa c'è? C'è che c'è lo scrittore Bianciardi. Ogni volta che s'affronta una biografia, quando la vita di un artista ha particolare interesse oltre all'opera, tocca ripetere il sermocino ammazzasomari per cui sì, certo, si confessa che Tizio ha vissuto, però l'Opera. Però l'Arte. Però la Scrittura. Però le Maiuscole.

Ma se c'era uno che non era Maiuscolo, era proprio il sor Luciano. (*) Va bene: fu scrittore, eccome - lui che rivendicava il "diritto alla cazzata" come Tognazzi le grand,quand'era all'opre letterarie intento si avvertiva che non era più disposto a imbelinarsi. Fu traduttore, il primo della categoria - e questo continuo lucro di "battonaggio e ribaltatura" gli consentiva, unquanco, di realizzare i propri testi con rapida ironica ira, sicché quel lavoro di forgia e foggia (dove peraltro fece il militare) che di solito distingue lo scrittore dallo scrivente se lo trovava bell'e pronto, calcatogli in testa dall'esercizio della cultura della voltura (Boy George? Ognuno ha le Liz Taylor che si merita). (**) Fu divulgatore storico, in diversi libri (uno su tutti: Dàghela avanti un passo!), occupandosi del Risorgimento, tempo assieme alla Resistenza in cui gli italiani (non i re o i papi) facevano il loro paese e si facevano (non di coca), e come quello avversato o mummificato nelle targhe e nei monumenti, siccome al borghese non piace nulla che sia vivo. Fu pubblicista fecondo, anche se ogni tanto si sente la fretta della commissione, il controvoglia della marchetta - ma chi è senza peccato? Inventò sceneggiature, prese parte a spettacoli televisivi, della televisione fu critico divertito e divertente - ma non giocava a fare la penna all'arrabbiata, il maledetto toscano, il rompicazzo atomico "in prima persona singolare". No: ridendo e scherzando, la sua vena era autentica, vera la sua disarmonia prestabilita.

E difatti fu, in modo tanto profondo che colpisce, uomo del suo tempo. Lo so: chi usa frasi di questo tenore "dovrebbe venir perseguito". Lo premetteva al suo lavoro maestro Mark Twain - quel Samuel Langhorne Clemens ch'era un altro profugo, diviso (e sul "diviso" tornerò), come ricorda Dwight Macdonald, tra spararsi pubbliche pose di geniale filosofo familiare, e un inferno privato fatto di disperazione e nichilismo. E che, pure, trovò consolazione e sfogo nella materia scatologica e pornerèlla: noto all'universo e ad altri siti come fanciullone autore per ragazzi (e per adulti rimbischeriti), è anche l'estensore d'un testo libertino, 1601, ricercato sotadico ancor oggi imbarazzante per i braghettoni, e gran sfottuta dell'inglese scespiriano, ambientato appunto all'epoca della Regina Vergine (insomma...) che n'è protagonista. Libraccio che ha fatto pensare a qualcuno (Faeti?) che, parlando di Tom, di Huck, del negronetto Jim, di Becky Thatcher che si ritrova vedi caso a passare un guaio per un atlante di anatomia umana normalissima, lo scrittore non avesse detto tutto, che avrebbe voluto dire di più.

Bianciardi, invece, qualche soddisfazione nel campo se la prese - quegli allegri Tropici milleriani che dimostravano la vita come tutto meno che agra, persa dietro a quella fica a molle che sulla pagina diventa puro esercizio di stile, mille volte evocata con diecimila sinonimi (il mio preferito è "Hotel Cupido") dal porcellone americano e franco (che pare avesse come bildungsroman From the heart of a boy, cioè la versione anglosassone del pianto antico deamicisiano), e in centomila occasioni voltata rivoltata volgarizzata battuta e beata dal Nostro. Ma la carne, oltre che debole, è pericolosa, in specie nell'Italietta clericofascista delle supercàzzole bremadurate con scappellamento a destra, delle prefiche molli d'ogni genere, dei pretori pretoriani del buoncostume, degli zelatori del seme santo dell'innocenza per adulti: e così un giorno Bianciardi s'ha da difendere per aver scritto d'un mondo alla rovescia ove ci si stroiazza per la strada ma ci si nasconde e s'arrossisce per consumare fettine, bistecche, braciole, fese, magatelli, paillardes, portafogli all'Attilio - insomma la ciccia. Ma non l'aveva già fatto Buzzati? Comunque, per quella volta il discolo trova chi lo difende - e son pezzi da novanta -, e la passa liscia. Meno bene gli andrà nella bischerrima causa intentatagli da uno dei personaggi di Vita agra, e proseguita dalla di lui moglie: Bianciardi credeva di avergli fatto un piacere a metterlo col nome e cognome, e si ritrovò a dover spiegare ai giudici con la toga "la differenza tra pensiero e azione". Soldi agli avvocati, ma soprattutto il sentimento che le maremme fossero davvero diventate maiale.

E qui riacchiappiamo "l'uomo del suo tempo". Chi è costui? Quello che, per opere ed omissioni, rappresenta nel bene e nel male un periodo. E questo fu Bianciardi: come l'Italia, dimidiato tra vecchio che non muore e nuovo che nasce male, tra passato che non passa, in specie nelle sue storture, e presente che fa di tutto per gabellare le nuove distorsioni per dritterie. Te'l chi el Luciano: che, raccontando l'integrazione, si disintegra prima in due - i fratelli protagonisti della coppia di romanzi esordìvi -, quindi in apparenza si ricompone nella terna successiva, ma solo per spezzettarsi in una voce sola ch'è ridotta a un ectoplasma, a una polvere annullata nel brulichìo delle mille identità senza identità che evoca, e nel clamore dei due "miracoli" (truffaldini) italiani giusto alla spanna d'un secolo (1860 e 1960). Tesi: la vita mortale della mefitica città-Moloch (La vita agra). Antitesi: la lotta risorgimentale (La battaglia soda) , col bòtto finale di Custoza - eco dell'altro bòtto, vissuto nella coda velenosa del '43. Sintesi: quell'Aprite il fuoco! che sposta le Cinque Giornate nel Novecentocinquantanove, realizzandone assieme la necessità e l'improponibilità - del resto, anche i torracchioni della piccozza e dell'alambicco non si fanno saltare, perché le compagnie assicurative li risarciscono al doppio del valore. Le miniere, invece, possono anche esplodere, anzi devono, così si chiudono e morta lì, niente più passivi, lavoro morto per le migliorìe, scazzi con la classe operaia.

L'ultimo romanzo èdito, sovrapponendo il passato al presente, testimonia dunque non solo la frenesia convulsiva dell'oggi (cioè del nostro appena ieri), ma che l'infezione aveva ed ha corrotto le radici, devitalizzandole, anticipando la retorica del collasso ideologico del mondo arcaico e le "ironiche rovine" dell'ultima abiura pasoliniana - e mostrando che ciò che angosciava il Poeta non era solo una sua deriva psicopatologica, bensì aveva un senso condivisibile e condiviso. E, viceversa, che il grossetano muoveva i suoi pezzi non esclusivamente sulla scacchiera interiore: su quella della cultura viva, anche. Quella per esempio del Gaber, dimidiato anche lui, a mostrare però che "io mi chiamo G." non è lo stesso di "anch'io mi chiamo G.", e che, quando "Dio si chiama G.", ne succedono delle belle - e per dirle, non c'è che l'invettiva, la bestemmia, versione Giobbe-Pàsola.

Più su, ho scritto sintesi, ma non avrei dovuto: come il proprio paese, che ha avvelenato le fonti prime del sentimento inaridendole e inaridendosi, non c'è composizione nel processo-Bianciardi. C'è distonìa, invece - è il titolo dell'ultima incompiuta fatica letteraria dell'Autore: i doppi s'incontrano, conflagrano magari (come la materia e l'antimateria, come le masse contadine che s'inurbano e la campagna che si fa hinterland, come il Sud e il Nord che non si decidono a diventare mere espressioni geografiche, e inflatano il razzismo che sempre serpeggiò nel "costume nostro") ma non si riducono ad uno. Magari si ritrovano in un rapporto gerarchico: e infatti Bianciardi può leggersi come alter-ego, sfalsato, di Giangiacomo Feltrinelli, altra personalità dimidiata che racchiude e pantografa una storia italiana. Tuttavia, la scissione, la dis-integrazione, non sono dialettici: di-laniano, di-midiano, medio-lànano - se mi si passa la bruta deverbazione combinatoria. E il Biscione si svela come tènia che tutto svuota: persone, rapporti, affetti.

Tutto questo, e altro ancora, nel pregevole lavoro di Bertani che qui percorriamo. Per dire: che altro? Le piccinerie e le viltà (che ci furono) dell'uomo parallelo all'intellettuale: e le sue incertezze, che lo portarono a esagerare, a sbagliare anche, mai però all'incoerenza. Esempio: negli ultimi anni andrà in una breve trasferta in Israele. La corta permanenza gli basta: vede come sono trattati i palestinesi, e al ritorno si ficca una benda sull'occhio - a tipo Moshè Dayan - per sfottere chi fa della facile retorica e della politichetta d'accatto su due tragedie in una terra che, per esser tre volte santa, da duemilacinquecento anni non fa che chiedere un tributo di sangue.

E, però: se c'è un appunto da fare al testo, è nella sua progressione. Mi pare di notare che la rassegna degli anni d'infanzia, giovinezza e maturità, scorra per indugiare sull'ultimo periodo - come cioè se l'Autore dia per conosciute diverse vicende e numerosi incontri del periodo meneghino. E' ben probabile che ciò dipenda dalla reperibilità del validissimo e vivido schizzo biografico di Pino Corrias, (***) che ritrova autentici volti e voci di quel tempo grigio, pieno di uomini (intendi: adulti): e diversificarsi è un bene, se no si rischia il risaputo. Tuttavia, almeno un accenno a Bocca di Magra ci sarebbe stato preciso, ovvero un minimo approfondimento del complicato rapporto di appartenenza e disgiunzione con la categoria che avrebbe dovuto più comprenderlo e accoglierlo, quella degli intellettuali. Tutto sommato, però, è fàlla veniale, in un testo che si raccomanda per scioltezza e generale misura.



*) che sentiva e ribattezzava Lorenzo Viani "zio Lorenzo". Noi allora, più modesti, possiamo credere lui nostro cugino, almeno per parte d'arte;

**) "Una voce fuori dal coro sembra essere quella di Rachid Boudjedra : "In genere scrivo molto velocemente, ma giungo alla scrittura solo dopo una lunga elaborazione mentale: posso portare un libro dentro di me per diversi anni e poi scriverlo in tre o quattro settimane, lavorando diciotto ore al giorno". Sembra. E invce la riscrittura di Boudjedra esiste: è una riscrittura mentale, forse efficace quanto le altre, e forse addirittura più severa, se fino a quando non si è chiarita non ha la licenza di giungere sula carta". Vedi F. Piccolo, Scrivere è un tic, Minimum Fax, Roma 1994, p. 29;

***) Vita agra di un anarchico, Baldini & Castoldi, Milano 1993.





di Marco Lanzòl


icona
Gustoso

CERCA

NEWS

RECENSIONI

ATTUALITA'

CINEMA E MUSICA

RACCONTI

SEGUICI SU

facebookyoutube