Tasti di scelta rapida del sito: Menu principale | Corpo della pagina

Il Paradiso degli Orchi
Home » Recensioni » Darusja la dolce

Pagina dei contenuti


RECENSIONI

Marija Matios

Darusja la dolce

Keller editore, Traduzione di Francesca Fici, Pag.224 Euro 15,50
immagine
Lo scenario è quello della Bucovina, una delle tante terre dimenticate e martoriate. Contesa fra diversi stati, attraversata da soldati di vari schieramenti, ha visto a volte nel giro di una notte il cambio di guardia fra dominatori differenti, che la popolazione accoglieva senza volere e senza capire, sprofondata in una dolorosa passività. Tedeschi, romeni, russi, polacchi, ucraini. Con un’identità sempre minacciata (perfino il divieto talvolta di parlare la propria lingua originaria!) e una sopravvivenza messa a rischio dalle ristrettezze e dalle angherie, la popolazione dei villaggi sperduti nelle campagne vive alla giornata confidando della religiosità bigotta, nella superstizione, nella coesione sociale che si alimenta di un po’ solidarietà e di tanti pettegolezzi suscitati dall’invidia. Ci si domanda che cosa ci sia da invidiare in situazioni di questo tipo, ma qui come ovunque succede talvolta che un po’ di felicità spunti come un bucaneve in mezzo al gelo. È
l’amore che produce un fragile miracolo, prima che un nuovo dramma riporti alla rassegnazione.
   L’Autrice divide nettamente le due parti della storia, che si riferiscono a due generazioni diverse. Inizia da quella più recente, tutta dominata dal personaggio che dà il titolo al romanzo. Una ragazza strana, che non parla, di cui non si sa se sia muta o pazza, o tutt’e due le cose, e tuttavia riesce a condurre una vita tranquilla e relativamente autonoma. La casetta e l’orto, e quando può le visite alla tomba del babbo. Ma a tormentarla ci sono atroci mal di testa, che lei cura come può immergendosi nell’acqua del fiume o nella terra. È il lascito di un trauma antico, insieme all’intolleranza per una parola, “caramella”, che al solo sentirla scatena il suo male. Altri indizi non sono dati, a parte l’esito di una piccola storia in cui la sfortunata Darusja trova la sua porzione di amore e tenerezza accanto a un suonatore e fabbricante di drimba sradicato come lei. Convergenza curiosa, poiché questo strumento è uno scacciapensieri, che come per magia riesce a sottrarre gli ascoltatori alle durezze della realtà cullandoli in un breve e provvidenziale oblio.
   Nella seconda parte si racconta la storia dei genitori di Darusja, due creature tenere e indifese che diventano i bersagli ideali là dove la sfortuna si accanisce. Piccole vite che sembrano scavarsi una nicchia in un angolo nascosto fuori dalla Storia, finché la Storia non arriva a stanarli per chiedere un tributo. Il lettore, in una narrazione coinvolgente e densa di emozioni, arriva così a scoprire le ferite di cui Drusja porta le cicatrici.
   Con grande perizia e sensibilità l’Autrice rende l’atmosfera di un microcosmo paesano, in cui il tempo è scandito fra piccole felicità ed enormi drammi, senza che né le une né gli altri scalfiscano una sorta di rassegnazione fatalistica che amalgama ogni cosa.
   I dialoghi fra le comari, come un coro greco, danno corpo alle onde del destino che incombe, con delle regole non scritte ma accettate malgrado la loro crudeltà: ogni attimo di felicità è una deviazione che sarà compensata da un corrispondente (ma calcolato con formula esponenziale) carico di sofferenza.
   La musica è presente in profondità nel suo doppio ruolo: veicolo di una tradizione che si impone come immutabile, e insieme unico scampo per sottrarsi per qualche istante al vortice di una necessità crudele.
   Forse sarebbe meglio non cominciare mai una danza al suono di quella melodia, triste come il destino della sposa, quella melodia è come la scure affilata della storia che incombe sulla testa di ognuno; forse sarebbe meglio rimanere da parte (…) Perché quei movimenti, che i danzatori eseguono all’unisono, in mezzo alla stanza, tra gli invitati alle nozze, sono forse più forti di tutte le promesse (…) Quel ritmo ti penetra sotto la pelle, anche se ce l’hai grassa, ti penetra come una punta acuminata, come una lama affilata fino al cuore, o forse è il violino che te lo caccia dentro, e tu non puoi liberarti dal fluire di quella melodia…
   È la melodia della hora mare, la stessa che secondo alcuni vecchi si avverte prima di morire.

di Giovanna Repetto


icona
Gustoso

CERCA

NEWS

RECENSIONI

ATTUALITA'

CINEMA E MUSICA

RACCONTI

SEGUICI SU

facebookyoutube