RECENSIONI
Gianluca Liguori
Dio è distratto
Tespi, Pag. 198 Euro 10,00
Bolaño, in 2666, racconto meraviglioso, di pura meraviglia, accerchia la figura di Benno Von Arcimblodi, il fantastico letterato protagonista del suo libro, con una lentezza da alchimista, e con una maestria funambolica: migliaia di pagine per non arrivare da nessuna parte, se non ad elaborare una raffinata ed essenziale metafora sul quel fare metafore che è la letteratura, o la vita.
Gli scrittori, o meglio i loro libri, sono alberi: quelli strani e contorti e ombrosi e ramificati e brutti e paurosi sono i grandi autori; quelli piccoli, graziosi, ordinati i minori.E allora giù con questa botanica, con le filogenesi di questa verdura, perché per farci capire chi è Benno, cioè il Poeta, quello che fa Poesia, Bolaño deve parlare di tanti altri scrittori: gli scrittori che non hanno scritto nulla ma che hanno fatto amare la letteratura a Benno; quelli che gli hanno dato il nome (de plume), e tutti gli scrittori che girarono attorno ad essi; quelli che hanno reagito come lui a quella data cosa. E, per farci capire bene, poi, ad un certo punto, quanto Benno fosse un Poeta, quello che fa Poesia, ce lo descrive mentre vagabonda e vive; e per farcelo capire proprio bene Bolaño ci dice che Benno era proprio il contrario del suo coetaneo Moravia, un giovane borghese salottiero molto chic chic e intrigante.
Penso che Bolaño non ce l'avesse troppo col salottiero, o con lo chic chic, e neanche con l'intrigante (che un modo come un altro per essere qualcosa); e nemmeno con la borghesia in sé: Bolaño soffre, è chiaro, davanti all'albero ordinato e grazioso, e minore, che è la letteratura quale il borghese, piccolo o grande, cattolico od ateo, marxista o a diverso titolo conservatore, è in grado di concepire, leggere e (qui il dramma) scrivere: una letteratura che chiede ad Amleto di dire, a bassa ma chiara voce (che tutti capiscano, siamo in tv!) non tanto quello che pensa della morte, ma piuttosto come si vive il rincaro delle zucchine, o altre ordinate e giudiziose (o feroci, o forti) considerazioni sulla cosiddetta realtà.
Bisogna ammettere, che, in questa apoteosi del pacchiano borghese che è oggi l'Italia, la nostra letteratura non poteva essere diversamente moraviana (del Moravia di Bolaño, ovvio): e così ecco una generazione di ombelicali; di correttamente attenti ai piccoli dolori e alle piccole gioie quotidiane (che so quelle che contano!, diceva la suora a catechismo battendoti i soldi in tempo di quaresima); di freudiani attenti a capire il momento in cui si sono beccati il trauma; ecco i cantori della propria vita: il teatro greco sottintendeva la liberazione dell'uomo dal bios (la vita individuale), la sua liberazione nella zoè, (la vita pura): e invece noi giù a Grande Fratello e a particolari sulle eiaculazioncine di Berlusconi; ecco i cronachisti esatti, o i denunciatori, della società e della realtà in cui essa vita si colloca: basta conoscere il numero giusto di parole, non sgrammaticare, essere puliti, avere un taccuino e buona memoria, e lì fuori c'è già un libro già scritto.
Ma la vita non ha bisogno della realtà per essere vita (cos'è questo che sento di dolori e stanchezza,/ e ira, scontento e speranze fallite?/Figli e figlie degeneri,/ la Vita è troppo forte per voi - /ci vuole vita per amare la Vita. Spoon River); così come la letteratura non ha bisogno altro che di se stessa (è una macchina automa, diceva Bolaño): e si potrebbe anche sospettare che, oltre ad essere autonoma è, in qualche misura, spontanea (e autonome e spontanee sono sempre le rivelazioni dell'essere).
E si veda, per fare un esempio, questo fresco, acerbo libro di Gianluca Liguori, Dio è distratto che parte dai presupposti più moraviani, sia pure nella vulgata beatnik, per approdare in lidi del tutto opposti, come se dentro un stilema in voga, avesse attecchito con forza il germe di una qualità diversa: infatti quella che sembra essere la cronaca dei giorni e delle ore di un giovane che si perde a Roma con il sogno di scrivere un libro, diventa quasi subito un vagabondaggio onirico, circolare (tutto anima) attorno ad un centro che non esiste: il libro, appunto, che il protagonista vorrebbe scrivere: una metafora sul fare metafore.
Un tour de force dell'anima che sbalza il testo dai paraggi dell'On the road e lo accosta, sia pure in maniera embrionale, al Satirycon: perfino nella lingua che non resiste a cedere ad un incantevole, sporca, vera inflessione meridionale, che, a tratti, rende prezioso l'impaginato musicale del racconto: un sapore salato e acerbo che restituisce il senso intatto di quella tragedia che tutti dobbiamo affrontare, l'incarnazione dell'anima, il nostro trascinarla in giro e farci trascinare da lei, nei bassifondi delle periferie e negli sballi suburbani e negli incontri promiscui che agiscono, fuori o dentro di noi, nel nostro immaginale.
Seguire la chimera per incarnare l'anima: passare la linea d'ombra, avrebbe detto un altro.
di Pier Paolo Di Mino
Gli scrittori, o meglio i loro libri, sono alberi: quelli strani e contorti e ombrosi e ramificati e brutti e paurosi sono i grandi autori; quelli piccoli, graziosi, ordinati i minori.E allora giù con questa botanica, con le filogenesi di questa verdura, perché per farci capire chi è Benno, cioè il Poeta, quello che fa Poesia, Bolaño deve parlare di tanti altri scrittori: gli scrittori che non hanno scritto nulla ma che hanno fatto amare la letteratura a Benno; quelli che gli hanno dato il nome (de plume), e tutti gli scrittori che girarono attorno ad essi; quelli che hanno reagito come lui a quella data cosa. E, per farci capire bene, poi, ad un certo punto, quanto Benno fosse un Poeta, quello che fa Poesia, ce lo descrive mentre vagabonda e vive; e per farcelo capire proprio bene Bolaño ci dice che Benno era proprio il contrario del suo coetaneo Moravia, un giovane borghese salottiero molto chic chic e intrigante.
Penso che Bolaño non ce l'avesse troppo col salottiero, o con lo chic chic, e neanche con l'intrigante (che un modo come un altro per essere qualcosa); e nemmeno con la borghesia in sé: Bolaño soffre, è chiaro, davanti all'albero ordinato e grazioso, e minore, che è la letteratura quale il borghese, piccolo o grande, cattolico od ateo, marxista o a diverso titolo conservatore, è in grado di concepire, leggere e (qui il dramma) scrivere: una letteratura che chiede ad Amleto di dire, a bassa ma chiara voce (che tutti capiscano, siamo in tv!) non tanto quello che pensa della morte, ma piuttosto come si vive il rincaro delle zucchine, o altre ordinate e giudiziose (o feroci, o forti) considerazioni sulla cosiddetta realtà.
Bisogna ammettere, che, in questa apoteosi del pacchiano borghese che è oggi l'Italia, la nostra letteratura non poteva essere diversamente moraviana (del Moravia di Bolaño, ovvio): e così ecco una generazione di ombelicali; di correttamente attenti ai piccoli dolori e alle piccole gioie quotidiane (che so quelle che contano!, diceva la suora a catechismo battendoti i soldi in tempo di quaresima); di freudiani attenti a capire il momento in cui si sono beccati il trauma; ecco i cantori della propria vita: il teatro greco sottintendeva la liberazione dell'uomo dal bios (la vita individuale), la sua liberazione nella zoè, (la vita pura): e invece noi giù a Grande Fratello e a particolari sulle eiaculazioncine di Berlusconi; ecco i cronachisti esatti, o i denunciatori, della società e della realtà in cui essa vita si colloca: basta conoscere il numero giusto di parole, non sgrammaticare, essere puliti, avere un taccuino e buona memoria, e lì fuori c'è già un libro già scritto.
Ma la vita non ha bisogno della realtà per essere vita (cos'è questo che sento di dolori e stanchezza,/ e ira, scontento e speranze fallite?/Figli e figlie degeneri,/ la Vita è troppo forte per voi - /ci vuole vita per amare la Vita. Spoon River); così come la letteratura non ha bisogno altro che di se stessa (è una macchina automa, diceva Bolaño): e si potrebbe anche sospettare che, oltre ad essere autonoma è, in qualche misura, spontanea (e autonome e spontanee sono sempre le rivelazioni dell'essere).
E si veda, per fare un esempio, questo fresco, acerbo libro di Gianluca Liguori, Dio è distratto che parte dai presupposti più moraviani, sia pure nella vulgata beatnik, per approdare in lidi del tutto opposti, come se dentro un stilema in voga, avesse attecchito con forza il germe di una qualità diversa: infatti quella che sembra essere la cronaca dei giorni e delle ore di un giovane che si perde a Roma con il sogno di scrivere un libro, diventa quasi subito un vagabondaggio onirico, circolare (tutto anima) attorno ad un centro che non esiste: il libro, appunto, che il protagonista vorrebbe scrivere: una metafora sul fare metafore.
Un tour de force dell'anima che sbalza il testo dai paraggi dell'On the road e lo accosta, sia pure in maniera embrionale, al Satirycon: perfino nella lingua che non resiste a cedere ad un incantevole, sporca, vera inflessione meridionale, che, a tratti, rende prezioso l'impaginato musicale del racconto: un sapore salato e acerbo che restituisce il senso intatto di quella tragedia che tutti dobbiamo affrontare, l'incarnazione dell'anima, il nostro trascinarla in giro e farci trascinare da lei, nei bassifondi delle periferie e negli sballi suburbani e negli incontri promiscui che agiscono, fuori o dentro di noi, nel nostro immaginale.
Seguire la chimera per incarnare l'anima: passare la linea d'ombra, avrebbe detto un altro.
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