RECENSIONI
Sergio Caputo
Disperatamente (e in ritardo cane)
Mondadori, Pag. 286 Euro 15,50
Per fare un solo esempio (ma che dia, tra l'altro, una certa pompa all'incipit) il primo scrittore inglese fu un certo Caedmon che non sapeva né leggere, né scrivere, ma al quale (la storia non dice se per caldana o peperonata) prese uno sturbamento mistico tale che, appena riprese i sensi, scrisse un poema sull'origine delle cose create. Non è una grande opera, ma lo sturbamento mistico era verace; e questo è bastato a farci tramandare l'opera.
Magari anche Disperatamente non è una grande opera; e Sergio Caputo, pur sapendo leggere e scrivere, non è uno scrittore laureatissimo e letteratissimo; ma è anche vero che qui, nel suo libro, lo sturbamento c'è, eccome.
Del resto, parliamoci chiaro, Sergio Caputo mastica volentieri la poesia. E lo sa chi ha ballato qualche volta le sue canzoni 'mocambescamente' struggenti, piene di eroi fatti interamente per l'amore e il samba, la fuga e la sconfitta; per quello scialo dei desideri che, man mano che accumulano debiti, diventa dissanguamento eterno. Insomma, non è arrivato mai a pontificarci sopra, e, proprio per questo, della disperazione Caputo ha fatto un qualcosa di utile. Perché la disperazione, ai fini dello sturbamento di cui sopra, è anche meglio della caldana e della peperonata. E, infatti questo è un libro che io consiglierei volentieri non solo a pochi lettori di Italia, ma anche ai suoi tanti scrittori: così per prendere una boccata d'aria fresca.
In cosa consiste questa aria fresca?
Bene: consiste nel fatto che Caputo racconta questa storia per un profondo istinto a raccontare a qualcuno qualcosa che gli possa parlare al cuore. Questo è un romanzo proprio romanzo; che affonda nei primordi di questo genere, cioè in quelle storie della tarda antichità in cui vetustissimi eroi mitologici, di primo o secondario ordine, oppure Alessandro Magno, facevano lunghi viaggi in cui gli capitava di tutto; in cui ci si struggeva d'amore; e di questo amore si conoscevano, infine, gli aspetti più mortificanti (Bataille: ce qu'on aime vraiment, on l'aime surtout dans l'honte; che sarebbe a dire che quello che si ama veramente, lo si ama nella vergogna); e in cui i personaggi si perdevano, spesso, per non trovarsi mai più.
Perché purtroppo l'anima, questa cosa che neanche è detto che esista, ci tormenta di brutto. E forse per questo ci è così cara.
O è così cara a Caputo, che in questo libro racconta sconsolatamente quella che è in larga misura la sua vita, il suo tormento, senza mai scadere nella tentazione di farne un'autobiografia. Assolutamente: qui la sua vita è un'epopea sentimentale e lirica, a cui non manca nessuna di quelle esperienze che l'autore ha l'abilità sensibilissima di trarre dal quotidiano, e dalla sua squallida amarezza, per tramutarle in avventura.
Insomma, quando si dice la mia vita è un romanzo, un'odissea.
E un'odissea, infatti, diventano le delusioni del protagonista di questa storia, un cantante che ha avuto successo, e non lo ha più; che è fuggito dall'Italia per riparare in America, e che non è più di nessun luogo; che non è più amato da chi ama, e patisce l'amore; e che si aggira stregato per il mondo guardando le persone agitarsi, muoversi, fare, disfare. E non è un caso che questo povero e appassionato uomo sia guidato dall'ossessione per un altro grande perseguitato dall'anima, John Keats. Per Keats il mondo è un occasione, la "valle" dove fare l'anima, dove costruirla, per raggiungere la verità come solo la può restituire l'immaginazione.
E l'arte del romanzo, un mestiere che si fa solo con gli attrezzi dell'immaginazione (senza immagini, solo quello ci rimane: di immaginare), sembra dirci Caputo, proprio a questo serve: a fare anima; a fare epopea con la nostra pochezza interinale; a indicare un modo per trasmutare la nostra miseria in metafora.
O, direbbe forse Bufalino, il nostro disordine in bellezza.
di Pier Paolo Di Mino
Magari anche Disperatamente non è una grande opera; e Sergio Caputo, pur sapendo leggere e scrivere, non è uno scrittore laureatissimo e letteratissimo; ma è anche vero che qui, nel suo libro, lo sturbamento c'è, eccome.
Del resto, parliamoci chiaro, Sergio Caputo mastica volentieri la poesia. E lo sa chi ha ballato qualche volta le sue canzoni 'mocambescamente' struggenti, piene di eroi fatti interamente per l'amore e il samba, la fuga e la sconfitta; per quello scialo dei desideri che, man mano che accumulano debiti, diventa dissanguamento eterno. Insomma, non è arrivato mai a pontificarci sopra, e, proprio per questo, della disperazione Caputo ha fatto un qualcosa di utile. Perché la disperazione, ai fini dello sturbamento di cui sopra, è anche meglio della caldana e della peperonata. E, infatti questo è un libro che io consiglierei volentieri non solo a pochi lettori di Italia, ma anche ai suoi tanti scrittori: così per prendere una boccata d'aria fresca.
In cosa consiste questa aria fresca?
Bene: consiste nel fatto che Caputo racconta questa storia per un profondo istinto a raccontare a qualcuno qualcosa che gli possa parlare al cuore. Questo è un romanzo proprio romanzo; che affonda nei primordi di questo genere, cioè in quelle storie della tarda antichità in cui vetustissimi eroi mitologici, di primo o secondario ordine, oppure Alessandro Magno, facevano lunghi viaggi in cui gli capitava di tutto; in cui ci si struggeva d'amore; e di questo amore si conoscevano, infine, gli aspetti più mortificanti (Bataille: ce qu'on aime vraiment, on l'aime surtout dans l'honte; che sarebbe a dire che quello che si ama veramente, lo si ama nella vergogna); e in cui i personaggi si perdevano, spesso, per non trovarsi mai più.
Perché purtroppo l'anima, questa cosa che neanche è detto che esista, ci tormenta di brutto. E forse per questo ci è così cara.
O è così cara a Caputo, che in questo libro racconta sconsolatamente quella che è in larga misura la sua vita, il suo tormento, senza mai scadere nella tentazione di farne un'autobiografia. Assolutamente: qui la sua vita è un'epopea sentimentale e lirica, a cui non manca nessuna di quelle esperienze che l'autore ha l'abilità sensibilissima di trarre dal quotidiano, e dalla sua squallida amarezza, per tramutarle in avventura.
Insomma, quando si dice la mia vita è un romanzo, un'odissea.
E un'odissea, infatti, diventano le delusioni del protagonista di questa storia, un cantante che ha avuto successo, e non lo ha più; che è fuggito dall'Italia per riparare in America, e che non è più di nessun luogo; che non è più amato da chi ama, e patisce l'amore; e che si aggira stregato per il mondo guardando le persone agitarsi, muoversi, fare, disfare. E non è un caso che questo povero e appassionato uomo sia guidato dall'ossessione per un altro grande perseguitato dall'anima, John Keats. Per Keats il mondo è un occasione, la "valle" dove fare l'anima, dove costruirla, per raggiungere la verità come solo la può restituire l'immaginazione.
E l'arte del romanzo, un mestiere che si fa solo con gli attrezzi dell'immaginazione (senza immagini, solo quello ci rimane: di immaginare), sembra dirci Caputo, proprio a questo serve: a fare anima; a fare epopea con la nostra pochezza interinale; a indicare un modo per trasmutare la nostra miseria in metafora.
O, direbbe forse Bufalino, il nostro disordine in bellezza.
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