RECENSIONI
Imre Kertész
Dossier K.
Feltrinelli, Pag. 191 Euro 16,00
"Mai, di fronte a un'opera d'arte o a una forma artistica, si rivela fecondo per la sua conoscenza il riguardo a chi la riceve. Non solo ogni riferimento a un pubblico determinato o ai suoi esponenti porta fuori strada: ma anche il concetto di un ricettore ideale è nocivo in tutte le indagini estetiche, poiché queste sono semplicemente tenute a presupporre l'esistenza e la natura dell'uomo in generale. Così anche l'arte si limita a presupporre la natura fisica e spirituale dell'uomo – ma, in nessuna delle sue opere, la sua attenzione. Poiché nessuna poesia è rivolta al lettore, nessun quadro allo spettatore, nessuna sinfonia agli ascoltatori."
Queste parole di Walter Benjamin, che sapeva quello che sa qualsiasi artista (tanto quello che espone in pubblica piazza, che quello che scolpisce in cima alle cattedrali statue che non dovranno mai essere viste da nessuno); queste parole suonano di continuo tra quelle di Kertész nella lunga intervista che si increspa nella forma di questo strano romanzo, Dossier K..
Con questo non voglio dire che Kertész dia l'impressione di dichiarare un qualche debito con Benjamin. Forse non l'ha mai nemmeno letto. Ma questo è un debito che si rivela da solo, sempre, quando, in qualche modo, precipitiamo dalle parti della letteratura. Sono cose che si capiscono a pelle, non servono le parole: come con Socrate che migliorava i suoi studenti non certo per le povere verità che poteva possedere, ma per la sua presenza fisica.
Pure, con Kertész, allora, ci rendiamo conto di avere a che fare con la letteratura, non certo per qualche sua opinione lasciata qui e lì per dovere, e che, buona o cattiva che sia, rimane sempre quello che è un opinione, o un credo, o una fede, o una convinzione, o una conoscenza: la nostra parte più superficiale.
Kertész non ha nessun altro merito che quello di non volersi prendere il merito di essere nato in Ungheria, di essere nato ebreo, di essere stato deportato ad Auschwitz, di esserne sopravvissuto, di essere tornato a casa, di essere entrato per convenienza nel partito comunista, di aver scoperto che era composto in buona parte da crociafrecciati e di averlo taciuto con se stesso, di aver vissuto in un regime totalitario, di averlo fatto assumendosene clinicamente la responsabilità con una grave sindrome nevrotica, senza tralasciare, però, nel contempo, di scrivere commediole a lieto fine, semplici semplici e, quindi, compiacenti il potere, di aver aderito alla fronda democratica perché, da vigliacco, non voleva essere accusato di essere vigliacco; non vuole questi meriti, e nemmeno quello di averne fatto la materia della sua opera letteraria, adoperando con ampiezza e dettagliatamente la memoria del suo vissuto e quella storica, perché non reputa che il suo lavoro letterario deve niente all'interinale e casuale utilizzo di questa materia.
La sua materia è la lingua, quella lingua per la quale non ha voluto abbandonare l'Ungheria come tanti altri suoi compatrioti, alla ricerca di una vita migliore. Una stupenda lingua che non aspettava altro che assumere a propria disposizione i fatti accorsi a Kertész, per essere plasmata, nell'avventuroso corso di oltre dieci anni, in un romanzo che nessuno avrebbe voluto pubblicare e che, una volta pubblicato, nessuno avrebbe voluto leggere.
Del resto, l'idea stessa di scrivere a Kertész, si presenta subito, in un mondo in cui gli dei sono decaduti a sindromi, come una follia: prova a immaginarti [...] un giovanotto completamente disorientato, il quale – chissà come e perché – aveva cominciato a scrivere [...] mentre vedeva con terrore che questa attività non era giustificata da un bel niente, anzi, che quel che stava facendo era addirittura privo di senso., e scrivere, quindi, è un atto che trova una causa solo in una psicosi coercitiva... un ordine interiore indiscutibile... l'esecuzione di un compito.
Certo, ora che il cristianesimo trionfa nel 'Grande Fratello', qualcuno potrebbe parlare di vocazione, ma non Kertèsz: Ho parecchi difetti, ma una vocazione non l'ho mai avuta.
Ancora oggi, molti scrittori, possono imparare a non averne una, così da non dover scrivere per qualche motivo e per qualcuno.
di Pier Paolo Di Mino
Queste parole di Walter Benjamin, che sapeva quello che sa qualsiasi artista (tanto quello che espone in pubblica piazza, che quello che scolpisce in cima alle cattedrali statue che non dovranno mai essere viste da nessuno); queste parole suonano di continuo tra quelle di Kertész nella lunga intervista che si increspa nella forma di questo strano romanzo, Dossier K..
Con questo non voglio dire che Kertész dia l'impressione di dichiarare un qualche debito con Benjamin. Forse non l'ha mai nemmeno letto. Ma questo è un debito che si rivela da solo, sempre, quando, in qualche modo, precipitiamo dalle parti della letteratura. Sono cose che si capiscono a pelle, non servono le parole: come con Socrate che migliorava i suoi studenti non certo per le povere verità che poteva possedere, ma per la sua presenza fisica.
Pure, con Kertész, allora, ci rendiamo conto di avere a che fare con la letteratura, non certo per qualche sua opinione lasciata qui e lì per dovere, e che, buona o cattiva che sia, rimane sempre quello che è un opinione, o un credo, o una fede, o una convinzione, o una conoscenza: la nostra parte più superficiale.
Kertész non ha nessun altro merito che quello di non volersi prendere il merito di essere nato in Ungheria, di essere nato ebreo, di essere stato deportato ad Auschwitz, di esserne sopravvissuto, di essere tornato a casa, di essere entrato per convenienza nel partito comunista, di aver scoperto che era composto in buona parte da crociafrecciati e di averlo taciuto con se stesso, di aver vissuto in un regime totalitario, di averlo fatto assumendosene clinicamente la responsabilità con una grave sindrome nevrotica, senza tralasciare, però, nel contempo, di scrivere commediole a lieto fine, semplici semplici e, quindi, compiacenti il potere, di aver aderito alla fronda democratica perché, da vigliacco, non voleva essere accusato di essere vigliacco; non vuole questi meriti, e nemmeno quello di averne fatto la materia della sua opera letteraria, adoperando con ampiezza e dettagliatamente la memoria del suo vissuto e quella storica, perché non reputa che il suo lavoro letterario deve niente all'interinale e casuale utilizzo di questa materia.
La sua materia è la lingua, quella lingua per la quale non ha voluto abbandonare l'Ungheria come tanti altri suoi compatrioti, alla ricerca di una vita migliore. Una stupenda lingua che non aspettava altro che assumere a propria disposizione i fatti accorsi a Kertész, per essere plasmata, nell'avventuroso corso di oltre dieci anni, in un romanzo che nessuno avrebbe voluto pubblicare e che, una volta pubblicato, nessuno avrebbe voluto leggere.
Del resto, l'idea stessa di scrivere a Kertész, si presenta subito, in un mondo in cui gli dei sono decaduti a sindromi, come una follia: prova a immaginarti [...] un giovanotto completamente disorientato, il quale – chissà come e perché – aveva cominciato a scrivere [...] mentre vedeva con terrore che questa attività non era giustificata da un bel niente, anzi, che quel che stava facendo era addirittura privo di senso., e scrivere, quindi, è un atto che trova una causa solo in una psicosi coercitiva... un ordine interiore indiscutibile... l'esecuzione di un compito.
Certo, ora che il cristianesimo trionfa nel 'Grande Fratello', qualcuno potrebbe parlare di vocazione, ma non Kertèsz: Ho parecchi difetti, ma una vocazione non l'ho mai avuta.
Ancora oggi, molti scrittori, possono imparare a non averne una, così da non dover scrivere per qualche motivo e per qualcuno.
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