RECENSIONI
Ezio Sinigaglia
Eclissi
Nutrimenti, Pag. 112 Euro 15,00
Breve e delizioso, questo romanzo ruota intorno a un unico evento, un’eclissi totale, che è per il protagonista l’occasione di dare un nuovo senso alla propria storia e trarne un bilancio doloroso ma necessario.
Sinigaglia, che nella parte narrativa fa un uso magistrale e intensamente godibile della lingua italiana, si prende tuttavia il lusso, nei dialoghi, di giocare con altre forme linguistiche mescolando gli ingredienti qui elencati: l’inglese parlato da un italiano, l’italiano parlato da un’americana, l’inglese parlato dai norvegesi, il dialetto triestino. Sembrerebbe una babele, ma il suo capriccio è fonte di uno spasso continuo e, per una strana forma di alchimia, dà luogo a uno struggente linguaggio della tenerezza.
L’eclissi ancora oggi, al netto delle superstizioni e delle interpretazioni arcane, è un fenomeno di grande suggestione. È inconsciamente legato al gioco dei bambini molto piccoli, il ti vedo – non ti vedo in cui si confrontano con l’assenza, e scoprono che può essere temporanea. È come se il sole mettesse in scena la catastrofe della propria scomparsa per ammonirci sulla nostra dipendenza da lui e poi, ancora una volta, perdonarci. La sua precisione dà il senso dell’ineluttabile, e la risposta della natura, con l’improvviso silenzio degli uccelli, rende l’evento drammatico e lo ammanta di sacralità. Quale momento migliore, dunque, per guardarsi dentro? È quello che fa il protagonista, un architetto settantenne, in cerca della domanda cruciale della sua vita. In questo sta il difficile: non può trovare risposte finché non si pone la domanda giusta.
Preso da un inspiegabile impulso, decide di andare a vedere un’eclissi totale di sole in una sperduta isola norvegese dove un’anziana signora americana, incontrata casualmente, diventa l’inattesa complice della sua ricerca. Il loro dialogo, impostato sul gioco di parlare ciascuno la lingua dell’altro, si mantiene su toni discreti che sfiorano appena e con grande rispetto la sfera personale. Tuttavia, in quel parlare di panorami e di stelle, qualcosa affonda come un bisturi nel punto più doloroso della memoria, là dove la perdita di un amico ha segnato, nel suo percorso di vita, una frattura mai rimarginata.
Akron non sapeva risolversi a prendere la strada di casa (…) Teneva lo sguardo appannato dalle lacrime confitto nelle nuvole come se, a forza di guardarle con quell’ostinazione accalorata, con quella necessità imperiosa della ragione, dello stomaco, dei nervi, potesse persuaderle all’atto di carità di ritirarsi (…) così da scoprire alla sua vista le due Orse, i due Carri sopra uno dei quali, mezzo secolo prima, Ben aveva lasciato cadere qualcosa d’importante, una parola, un segno, un messaggio, una domanda. Una domanda, certo, una domanda. Era venuto qui per questo.
Da una parte l’imponente spettacolo della natura, così selvaggia all’estremo nord e così pronta a colpire con i cataclismi di cui è testimone la martoriata cattedrale di Storbygd che ancora si erge sventrata dalla tromba d’aria che distrusse un intero villaggio nel XVIII secolo. Dall’altra parte la garbata conversazione con la signora Wilson, apparentemente leggera ma capace di far vibrare corde nascoste. Questi i poli della reazione che s’innesca nella mente di Akron, scardinando la solerte opera di rimozione durata tanti anni.
Dopo i primi mesi atroci di disperazione quasi elettrizzata, dove la follia tenace dell’attesa si mescolava a quella del risentimento, e dove al fuoco di paglia del furore teneva dietro il carbone lentissimo, cocente della colpa, aveva imparato a poco a poco l’arte dell’elusione e della rimozione a scopo di sopravvivenza.
Così questo piccolo romanzo ci offre una grande dimostrazione di penetrazione psicologica e, me lo si lasci dire col punto esclamativo… una gran bella scrittura!
di Giovanna Repetto
Sinigaglia, che nella parte narrativa fa un uso magistrale e intensamente godibile della lingua italiana, si prende tuttavia il lusso, nei dialoghi, di giocare con altre forme linguistiche mescolando gli ingredienti qui elencati: l’inglese parlato da un italiano, l’italiano parlato da un’americana, l’inglese parlato dai norvegesi, il dialetto triestino. Sembrerebbe una babele, ma il suo capriccio è fonte di uno spasso continuo e, per una strana forma di alchimia, dà luogo a uno struggente linguaggio della tenerezza.
L’eclissi ancora oggi, al netto delle superstizioni e delle interpretazioni arcane, è un fenomeno di grande suggestione. È inconsciamente legato al gioco dei bambini molto piccoli, il ti vedo – non ti vedo in cui si confrontano con l’assenza, e scoprono che può essere temporanea. È come se il sole mettesse in scena la catastrofe della propria scomparsa per ammonirci sulla nostra dipendenza da lui e poi, ancora una volta, perdonarci. La sua precisione dà il senso dell’ineluttabile, e la risposta della natura, con l’improvviso silenzio degli uccelli, rende l’evento drammatico e lo ammanta di sacralità. Quale momento migliore, dunque, per guardarsi dentro? È quello che fa il protagonista, un architetto settantenne, in cerca della domanda cruciale della sua vita. In questo sta il difficile: non può trovare risposte finché non si pone la domanda giusta.
Preso da un inspiegabile impulso, decide di andare a vedere un’eclissi totale di sole in una sperduta isola norvegese dove un’anziana signora americana, incontrata casualmente, diventa l’inattesa complice della sua ricerca. Il loro dialogo, impostato sul gioco di parlare ciascuno la lingua dell’altro, si mantiene su toni discreti che sfiorano appena e con grande rispetto la sfera personale. Tuttavia, in quel parlare di panorami e di stelle, qualcosa affonda come un bisturi nel punto più doloroso della memoria, là dove la perdita di un amico ha segnato, nel suo percorso di vita, una frattura mai rimarginata.
Akron non sapeva risolversi a prendere la strada di casa (…) Teneva lo sguardo appannato dalle lacrime confitto nelle nuvole come se, a forza di guardarle con quell’ostinazione accalorata, con quella necessità imperiosa della ragione, dello stomaco, dei nervi, potesse persuaderle all’atto di carità di ritirarsi (…) così da scoprire alla sua vista le due Orse, i due Carri sopra uno dei quali, mezzo secolo prima, Ben aveva lasciato cadere qualcosa d’importante, una parola, un segno, un messaggio, una domanda. Una domanda, certo, una domanda. Era venuto qui per questo.
Da una parte l’imponente spettacolo della natura, così selvaggia all’estremo nord e così pronta a colpire con i cataclismi di cui è testimone la martoriata cattedrale di Storbygd che ancora si erge sventrata dalla tromba d’aria che distrusse un intero villaggio nel XVIII secolo. Dall’altra parte la garbata conversazione con la signora Wilson, apparentemente leggera ma capace di far vibrare corde nascoste. Questi i poli della reazione che s’innesca nella mente di Akron, scardinando la solerte opera di rimozione durata tanti anni.
Dopo i primi mesi atroci di disperazione quasi elettrizzata, dove la follia tenace dell’attesa si mescolava a quella del risentimento, e dove al fuoco di paglia del furore teneva dietro il carbone lentissimo, cocente della colpa, aveva imparato a poco a poco l’arte dell’elusione e della rimozione a scopo di sopravvivenza.
Così questo piccolo romanzo ci offre una grande dimostrazione di penetrazione psicologica e, me lo si lasci dire col punto esclamativo… una gran bella scrittura!
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