RECENSIONI
Marco Onofrio
Emporium
Edilet, Elsinore, Pag.80 Euro 10,00
Mi sa che la prima volta che ho letto Emporium mi sono sentito come l'Ismaele di Melville dopo l'orazione su Giona: non importa cosa, ma ho capito molto sul naufragio, che, del resto è da tutte le parti (si bene calculum ponas, ubique naufragium est)
Ora questo non è un discorso che si sbrighi con due parole, però, ci sarebbero delle considerazioni almeno da lasciare a margine, specie stando qui a riflettere su un libro di versi.
Voglio dire che siamo un popolo alfabetizzato e che quindi fa comodo che tutti si legga durante l'anno un qualche libro e che, siccome lo dicono pure in tivì, e con certe facce da preti, che bisogna leggere (non importa cosa, l'importante è leggere), significa che leggere è utile, e cioè serve a qualcosa, a un qualcosa che deve essere tipo a farmi piangere, o ridere, o distrarre, oppure a rendermi edotto su come si aggiusta una cosa, o su come la posso pensare su un argomento o, meglio, su come diventare più sano e più equilibrato: più speciale.
(Che poi è facile: siamo fatti per l'ottanta percento di acqua, e, per il resto, di cattivi pensieri: levate i cattivi pensieri e, così, diventate delle bottiglie d'acqua: cominciate con l'imitare le vostre bottiglie e in tre settimane, massimo quattro, siete in lizza per la santità).
Voglio dire che questi versi qui di Onofrio, come capita quando uno si ritrovi a fare arte (dico roba viva) non ci sta modo di farli servire a qualcosa: né ridere, né piangere, né aggiustare il lavandino, né convertirvi a qualcosa.
Ed il caso è interessante perché il libro di questo dardeggiante poeta è calato nella struttura di un lungo monologo teatrale dal possente, terminale, infiammante tono apocalittico: proprio come se ti parlasse qualcuno per muoverti a un qualche conversione. E come tutti gli uomini (ed anzi, focoso di carattere come ce lo mostrano i suoi versi, ancora di più) Onofrio deve certamente muovere da proprie personali convinzioni, spinto dall'ancora umana volontà di essere utile al suo prossimo: ma qui finiscono le motivazioni umane, e cominciano quelle poetiche.
Motivazioni che finiscono per fare tabula rasa di tutto il resto, per torcere e sprofondare il pensiero e il sentimento in un terreno fondo e oscuro, una notte, in cui vengono riformati come cadenza, suono, parola: un atto vocale puro.
E questa è una riappropriazione della poesia fondamentale: da qualche millennio operiamo questa bizzarra distinzione fra etico ed estetico: ed ora lo sanno pure i bambini che l'etica è il riconoscimento dell'altro, il riconoscimento del fatto che noi veniamo da un altro (non che siamo un altro, che sarebbe come a dire che sono sempre io), che siamo limitati, cioè formati dall'altro; e che questo riconoscimento dell'altro avviene, ovvio, attraverso la sua percezione: percezione, cioè estetica: pure i bambini lo sanno che il primo atto etico è estetico, e Onofrio, che arriva fino all'ultimo degli atti, ha il merito di abolire questa distinzione e di riappropriare la poesia di se stessa.
Onofrio fa incetta delle proprie convinzioni ideologiche, ma anche delle proprie amarezze, delle proprie debolezze, delle proprie incongruità, della sua personale cultura, magari delle sue personali rivalità, dei suoi odi, ma anche del mondo tangibile che ha davanti in tanti minutissimi aspetti, e gli dà un ordine: quello della poesia (e con Bufalino possiamo pensare che la capacità di organizzare in una verità, pure fosse interinale, il magma della realtà è non ultima fra le migliore prerogative della migliore letteratura).
La storia è un incubo, e il poeta deve stare ben sveglio.
Onofrio, allora, si fa accorto nell'uso degli strumenti poetici, e mette sotto torchio, o non so che altro strumento d'artigiano, questo materiale: attentissimo alla declinazione dei segni, attentissimo a farli assorbire dai suoni, nella loro variazione e combinazione continua, esuberante, inanella preziosamente, in una cadenza ora vorticosa e ora perentoria, una serie di figure-parole dall'impatto violento, possente: c'è il barocco rivisto da Ungaretti, certo, e anche il suo medioevo, quello degli amati Jacopone e Dante.
Gente che non ha mai confuso una poesia con un manuale per le istruzioni, un santo con una bottiglia d'acqua.
di Pier Paolo Di Mino
Ora questo non è un discorso che si sbrighi con due parole, però, ci sarebbero delle considerazioni almeno da lasciare a margine, specie stando qui a riflettere su un libro di versi.
Voglio dire che siamo un popolo alfabetizzato e che quindi fa comodo che tutti si legga durante l'anno un qualche libro e che, siccome lo dicono pure in tivì, e con certe facce da preti, che bisogna leggere (non importa cosa, l'importante è leggere), significa che leggere è utile, e cioè serve a qualcosa, a un qualcosa che deve essere tipo a farmi piangere, o ridere, o distrarre, oppure a rendermi edotto su come si aggiusta una cosa, o su come la posso pensare su un argomento o, meglio, su come diventare più sano e più equilibrato: più speciale.
(Che poi è facile: siamo fatti per l'ottanta percento di acqua, e, per il resto, di cattivi pensieri: levate i cattivi pensieri e, così, diventate delle bottiglie d'acqua: cominciate con l'imitare le vostre bottiglie e in tre settimane, massimo quattro, siete in lizza per la santità).
Voglio dire che questi versi qui di Onofrio, come capita quando uno si ritrovi a fare arte (dico roba viva) non ci sta modo di farli servire a qualcosa: né ridere, né piangere, né aggiustare il lavandino, né convertirvi a qualcosa.
Ed il caso è interessante perché il libro di questo dardeggiante poeta è calato nella struttura di un lungo monologo teatrale dal possente, terminale, infiammante tono apocalittico: proprio come se ti parlasse qualcuno per muoverti a un qualche conversione. E come tutti gli uomini (ed anzi, focoso di carattere come ce lo mostrano i suoi versi, ancora di più) Onofrio deve certamente muovere da proprie personali convinzioni, spinto dall'ancora umana volontà di essere utile al suo prossimo: ma qui finiscono le motivazioni umane, e cominciano quelle poetiche.
Motivazioni che finiscono per fare tabula rasa di tutto il resto, per torcere e sprofondare il pensiero e il sentimento in un terreno fondo e oscuro, una notte, in cui vengono riformati come cadenza, suono, parola: un atto vocale puro.
E questa è una riappropriazione della poesia fondamentale: da qualche millennio operiamo questa bizzarra distinzione fra etico ed estetico: ed ora lo sanno pure i bambini che l'etica è il riconoscimento dell'altro, il riconoscimento del fatto che noi veniamo da un altro (non che siamo un altro, che sarebbe come a dire che sono sempre io), che siamo limitati, cioè formati dall'altro; e che questo riconoscimento dell'altro avviene, ovvio, attraverso la sua percezione: percezione, cioè estetica: pure i bambini lo sanno che il primo atto etico è estetico, e Onofrio, che arriva fino all'ultimo degli atti, ha il merito di abolire questa distinzione e di riappropriare la poesia di se stessa.
Onofrio fa incetta delle proprie convinzioni ideologiche, ma anche delle proprie amarezze, delle proprie debolezze, delle proprie incongruità, della sua personale cultura, magari delle sue personali rivalità, dei suoi odi, ma anche del mondo tangibile che ha davanti in tanti minutissimi aspetti, e gli dà un ordine: quello della poesia (e con Bufalino possiamo pensare che la capacità di organizzare in una verità, pure fosse interinale, il magma della realtà è non ultima fra le migliore prerogative della migliore letteratura).
La storia è un incubo, e il poeta deve stare ben sveglio.
Onofrio, allora, si fa accorto nell'uso degli strumenti poetici, e mette sotto torchio, o non so che altro strumento d'artigiano, questo materiale: attentissimo alla declinazione dei segni, attentissimo a farli assorbire dai suoni, nella loro variazione e combinazione continua, esuberante, inanella preziosamente, in una cadenza ora vorticosa e ora perentoria, una serie di figure-parole dall'impatto violento, possente: c'è il barocco rivisto da Ungaretti, certo, e anche il suo medioevo, quello degli amati Jacopone e Dante.
Gente che non ha mai confuso una poesia con un manuale per le istruzioni, un santo con una bottiglia d'acqua.
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