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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Luca Palumbo

Fango

Lorusso Editore, Pag. 368 Euro 14,00
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   Di Luca Palumbo avevo apprezzato Un maledetto freddo cane, romanzo di una scrittura non perfetta ma densa di un vissuto personale mutuato dall’esperienza diretta nel campo dell’emarginazione. Qui tenta un salto, proiettando i dati veri e crudi della realtà in un racconto distopico surreale, simbolico e fantapolitco. Progetto ambizioso che, come il salto dell’atleta che alza l’asticella, offre una buona percentuale di rischio. E secondo me il risultato ne è uscito penalizzato dalla troppa carne al fuoco, difficile da cucinare anche per cuochi esperti.
   Molte le citazioni, esplicite o implicite. Qualcuna forse involontaria, o scaturita solo da mie associazioni personali. Poiché è interessante che un testo ispiri così tanti riferimenti, mi diverto a elencare a ruota libera, anche se un elenco non è mai completo.
   La zattera di pietra (J.Saramago) e L’assommoire (E.Zola) sono citati deliberatamente dall’Autore. Io non posso fare a meno di aggiungere Il paese delle ultime cose (P.Auster), e perfino L’osteria volante (G.Chesterton). E perché non ricordare L’eternauta (H.Oesterheld/F.S.López)? Già che ci sono non voglio tralasciare un pensierino a Todo modo (L.Sciascia), Le conseguenze dell’amore (P.Sorrentino) e Il traditore (J.Ford).
   Lo scenario è quello di una Roma periferica ben riconoscibile (Pigneto, Mandrione, Portonaccio, Casilino, Prenestino, ecc.) ma stravolta da un’atmosfera plumbea e apocalittica. Sì, è vero che appena piove a Roma scoppia il disastro e si sprofonda nella palude, con la città in preda al panico peggio degli elefanti di Annibale alla vista della neve, ma nella realtà che conosciamo si tratta di un fenomeno di breve durata. Nel romanzo invece la pioggia ha qualcosa di ineluttabile e fatale, e il fango del titolo pare una bestia dell’apocalisse.
   Il fango sonnecchiava sulla terra che aveva ormai sepolto, aspettando di nutrirsi da un momento all’altro. Mai sazio, il fango attendeva di inghiottire un altro boccone di città.
   Reale e simbolico, il fango sta invadendo lentamente la città insieme a una minaccia orwelliana (altra citazione): un fantomatico Sindaco, la cui stessa esistenza è messa in dubbio, sta per trasformare Roma in una città stato. In preparazione dell’evento viene attuato un violento programma di sgombero che colpisce extracomunitari, barboni, attivisti dei centri sociali, dissidenti a vario titolo, cittadini non omologati.  
   E sono appunto sradicati, disoccupati, ex utopisti i protagonisti che si aggirano sbigottiti in mezzo allo sfacelo, domandandosi se e quando toccherà anche a loro soccombere all’epurazione. 
   Muovendosi con passo incerto, sostenuti ancora da qualche scintilla di ribellione ma consapevoli di una disfatta imminente, essi si incontrano, si mescolano, intrecciano per un po’ le loro storie e si allontanano per incontrarsi di nuovo.  A complicare le cose c’è, onnipresente, lo spettro del tradimento. Si sospetta che ci siano infiltrati, che qualcuno faccia la spia. Ma sembra che anche la verità sia irrimediabilmente soffocata dal fango.
   Il Potere si fa strada inesorabile, ma chi lo detiene realmente? Chi si nasconde dietro l’anonimo ente che viene chiamato semplicemente L’Agenzia? Il misterioso Sindaco che forse non esiste, l’efferato Lanzarote che pare un genio del male, l’ex poliziotto Castracane con la pancia a forma di palla, il brutto funzionario con la forfora, la spettrale e puzzolente donna in moto che sembra un’allegoria della morte (e qui mi viene in mente Il Settimo Sigillo di I.Bergman) costituiscono una bella galleria di tipi ripugnanti, al cui confronto i perseguitati, nonché protagonisti della storia, risultano un po’ scialbi e troppo omologati fra loro.
   Resta da capire, dunque, chi si nasconda dietro il delirante progetto del “potere collettivo”.
   “Faremo nostro, concretamente, ciò che per coloro contro cui ci avventiamo è stata soltanto un’intenzione. L’idea avanguardistica e perfetta è realizzare un potere non più verticale. L’unica entità superiore e suprema sarà l’ideale. (…) E l’ideale collettivo contemporaneo è il potere.”
   È quanto ripete pedissequamente il rappresentante dell’Agenzia, a cui fa da contraltare il pensiero muto del suo interlocutore.
… Per rubare loro un’idea? E quale? Noi vogliamo semplicemente fottere. È la cosa più divertente del mondo.
   I ruoli spesso si ribaltano, i cacciatori diventano braccati, le alleanze sono sempre incerte e insidiose. Si avvicendano colpi di scena a non finire, che però più che risolvere lasciano il lettore nell’incertezza, come se troppe piroette gli facessero perdere l’equilibrio. Ammetto che lo spaesamento sia voluto, ma esso è lecito a patto che non s’imparenti con la confusione. E un po’ di rischio c’è. Di Palumbo ho preferito il libro precedente, attinto direttamente alla fonte della realtà quotidiana, che a volte è perfino più romanzesca dell’invenzione. Lì l’Autore aveva profuso entusiasmo e freschezza, e la sua generosità nel mettere in gioco l’esperienza personale aveva conferito agilità alla narrazione. Qui, sia pure animato da passione sincera, sembra muoversi con un po’ di impaccio, appesantito non tanto dall’invasione del fango quanto da un intento didascalico, se non addirittura filosofico, che penalizza il racconto.

di Giovanna Repetto


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