RECENSIONI
Simona Baldanzi
Figlia di una vestaglia blu
Fazi, Pag. 189 Euro 13,50
...on the working class, it's raining stones...
Toctoc! "Chi è?" "La classe operaia". "Ancora tu! Ma non dovevamo non vederci più?" E invece - malconcia, tosata, raccogliticcia, piena di bozzi - eccola lì. Dopo tre decenni almeno di morte apparente, le care vecchie tute blu - o vestaglie blu, nel caso siano manodopera femminile, come la madre dell'Autrice (e per prolessi grembiuli blu, quelli dei remigini) - pian piano vengono a ricordarci che per fabbricare un aggeggio è necessario che qualcuno lo realizzi. Che qualcuno si faccia venire i calli alle mani, la silicosi, lo sturbo, o, casomai, ci resti appeso - statistiche alla mano, ogni giorno muoiono circa quattro operai: salire su un'impalcatura, stagnare uno scafo, filettare al tornio, tirar su gli stadi dei mundial, è più rischioso e mortale che correre appresso ai rapinatori, che incastrare i mafiosi. (1) Solo che, se muori in uniforme, almeno ti becchi le pagine sui giornali, i funerali di stato. Se crepi per il crollo d'una galleria, o scivolando in una vasca di processo, non lo sa nessuno - per gli operai, nemmeno la morte è 'na livella.
Gli operai, insomma, ci sono, ma non esistono (non vengono detti): quelli che si vedono (di cui si dice), appartengono a realtà che crediamo non abbiano nulla a che fare con la nostra - che è l'unica, dunque le altre non lo sono. Stanno in paesi distanti - blau: die farbe des fernes -, dal nome complicato, vivono in tuguri, lavorano (sin da piccolini) in condizioni dickensiane, ricevono cifre irrisorie per procurarci i propellenti e le materie prime a buon mercato, e per fabbricare le merci che noi pagheremo a peso d'oro: realizzano insomma quel circolo virtuoso (per noialtri) che manda avanti il benessere dell'occidente. Quei profitti che, in minima parte riconvertiti in welfare e ammortizzatori sociali, consentono ai padroni di presentarsi "col volto umano" - e a "noi" di sentirci diversi, lontani da "loro" - Pinocchi felici e smargiassi perché invece d'aver un vestito di carta l'abbiamo di stracci. Quando non da loro minacciati: siccome accettano stipendi da burla, e non scioperano per non farsi massacrare dalla polizia, ci fanno "concorrenza sleale", ci "rubano il lavoro" - è giusto: al somaro che ammazzava a frustate, il padrone diceva e perché quello si fece asino? (L. Sciascia). Se una ragazza la violentano, è perché indossava la minigonna.
Ma questi, almeno si vedono. I nostri, no - sono il retrobottega del capitalismo. Nel libro della Baldanzi, ciò è reso con l'isolamento in cui vivono gli operai d'una faraonica e probabilmente inutile TAV - loro meridionali (non maghrebini o pakistani: calabresi, per lo più, come cinquant'anni fa), spediti a bacare le alture del Mugello, la valle della Sieve. Isolamento certo incompleto, ma reale: e, però, il monte Giovi, Barberino (libero dai nazifascisti l'undici settembre 1944), Vicchio, San Gersolè, giù fino a Prato, son nomi che non possono non ricordare esperienze altissime umane, collettive, pedagogiche, spirituali - la Resistenza, le lotte contadine e operaie e la cultura che esprimevano, la scuola di Barbiana. Ed è proprio di questo passato (incarnato nei propri genitori operai, nelle figure di amici, cantastorie, zie adottive, nonni di piazza, che li e la circondano) che l'Autrice si fa forte - complice l'occasione d'una ricerca che strutturerà la sua tesi di laurea (2) - per comprendere lei e mostrare a noi quegli uomini e quelle donne dell'agire e del produrre che taluno vorrebbe scomparsi. E che invece sono l'arco portante del vivere civile, e le esistenze dei quali realizzano il senso più alto della parola "patria", non nel bigotto e becero nazionalismo degli egoismi, bensì nel riconoscere in loro la matrice comune che ricollega tutti gli esseri umani nell'unica stirpe dell'homo faber, che modificando il mondo modifica sé stessa ed entrambi accresce. Portando in quest'azione il seme della necessità rimpianta dal Poeta, che voleva non l'età dell'oro ma l'età del pane; e la Baldanzi, con voce icastica e perfetta, rende le parole dell'Autore delle "Ceneri" - gli uomini "necessari" finché bisognosi del necessario, "superflui" quando consumatori del "superfluo" (3) - adeguate all'oggi, e forti d'una nuova evidenza: parlando del padre che raccoglie le olive, ammette "Lui deve render conto alla terra. Io a un supermercato". (p. 174) Una necessità che crediamo importante dover ricercare e ritrovare nelle cose e negli uomini, una volta risolti i problemi "fisiologici" (il tetto il pane il libro la comunicazione) e finita la sbronza del consumo folle e "in folle"- cioè, che gira a vuoto.
Tutto ciò, avviene sulla pagina con una scrittura di rara economia ed equilibrio, senza traccia di neorealismo stracotto né di figàme neo-workish, che testimonia la caparbia vivacità d'una lingua, come l'italiano, data così spesso per morta e sempre tuttavia capace di scattare al traguardo come un centometrista. Figlia d'una tradizione aulica e pe/Dante, ma al momento migliore mèmore della lezione barbianese, per cui "si scrive quando si ha qualcosa da dire". Certo: Edoardo Nesi, in quarta, vaticina della Baldanzi che l'è "una ragazza di cui si sentirà ancora parlare a lungo" - ragion per cui consiglio all'Autrice di renovare l'antico gesto biblico di testimonianza. (4) Però, se dal mattino si vede il giorno...
1) "Nel 2006 vi sarebbero stati 1115 morti nell'industria (280 nell'edilizia), 114 nell'agricoltura e 11 tra i dipendenti statali". Da E-polis Roma del sedici aprile 2007;
2) la troverai citata nell'approfondito studio, sulle medesime materie, di Angela Perulli (Dentro la montagna, Rosenberg&Sellier, Torino 2005). Per saperne di più, e dalle vive voci, degli operai della TAV, si veda Lavorare stanca, documentario di Loredana Dordi, trasmesso da Rai Tre l'undici agosto 2005;
3) cfr. P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1981(3), pp. 62-3;
4) il mio professore di Botanica farmaceutica inesausto ricordava (per la vinca minor?) che "orchys" traduce il latino "testis", da cui "testimone" - lett. "colui che giura sui testicoli".
di Marco Lanzòl
Toctoc! "Chi è?" "La classe operaia". "Ancora tu! Ma non dovevamo non vederci più?" E invece - malconcia, tosata, raccogliticcia, piena di bozzi - eccola lì. Dopo tre decenni almeno di morte apparente, le care vecchie tute blu - o vestaglie blu, nel caso siano manodopera femminile, come la madre dell'Autrice (e per prolessi grembiuli blu, quelli dei remigini) - pian piano vengono a ricordarci che per fabbricare un aggeggio è necessario che qualcuno lo realizzi. Che qualcuno si faccia venire i calli alle mani, la silicosi, lo sturbo, o, casomai, ci resti appeso - statistiche alla mano, ogni giorno muoiono circa quattro operai: salire su un'impalcatura, stagnare uno scafo, filettare al tornio, tirar su gli stadi dei mundial, è più rischioso e mortale che correre appresso ai rapinatori, che incastrare i mafiosi. (1) Solo che, se muori in uniforme, almeno ti becchi le pagine sui giornali, i funerali di stato. Se crepi per il crollo d'una galleria, o scivolando in una vasca di processo, non lo sa nessuno - per gli operai, nemmeno la morte è 'na livella.
Gli operai, insomma, ci sono, ma non esistono (non vengono detti): quelli che si vedono (di cui si dice), appartengono a realtà che crediamo non abbiano nulla a che fare con la nostra - che è l'unica, dunque le altre non lo sono. Stanno in paesi distanti - blau: die farbe des fernes -, dal nome complicato, vivono in tuguri, lavorano (sin da piccolini) in condizioni dickensiane, ricevono cifre irrisorie per procurarci i propellenti e le materie prime a buon mercato, e per fabbricare le merci che noi pagheremo a peso d'oro: realizzano insomma quel circolo virtuoso (per noialtri) che manda avanti il benessere dell'occidente. Quei profitti che, in minima parte riconvertiti in welfare e ammortizzatori sociali, consentono ai padroni di presentarsi "col volto umano" - e a "noi" di sentirci diversi, lontani da "loro" - Pinocchi felici e smargiassi perché invece d'aver un vestito di carta l'abbiamo di stracci. Quando non da loro minacciati: siccome accettano stipendi da burla, e non scioperano per non farsi massacrare dalla polizia, ci fanno "concorrenza sleale", ci "rubano il lavoro" - è giusto: al somaro che ammazzava a frustate, il padrone diceva e perché quello si fece asino? (L. Sciascia). Se una ragazza la violentano, è perché indossava la minigonna.
Ma questi, almeno si vedono. I nostri, no - sono il retrobottega del capitalismo. Nel libro della Baldanzi, ciò è reso con l'isolamento in cui vivono gli operai d'una faraonica e probabilmente inutile TAV - loro meridionali (non maghrebini o pakistani: calabresi, per lo più, come cinquant'anni fa), spediti a bacare le alture del Mugello, la valle della Sieve. Isolamento certo incompleto, ma reale: e, però, il monte Giovi, Barberino (libero dai nazifascisti l'undici settembre 1944), Vicchio, San Gersolè, giù fino a Prato, son nomi che non possono non ricordare esperienze altissime umane, collettive, pedagogiche, spirituali - la Resistenza, le lotte contadine e operaie e la cultura che esprimevano, la scuola di Barbiana. Ed è proprio di questo passato (incarnato nei propri genitori operai, nelle figure di amici, cantastorie, zie adottive, nonni di piazza, che li e la circondano) che l'Autrice si fa forte - complice l'occasione d'una ricerca che strutturerà la sua tesi di laurea (2) - per comprendere lei e mostrare a noi quegli uomini e quelle donne dell'agire e del produrre che taluno vorrebbe scomparsi. E che invece sono l'arco portante del vivere civile, e le esistenze dei quali realizzano il senso più alto della parola "patria", non nel bigotto e becero nazionalismo degli egoismi, bensì nel riconoscere in loro la matrice comune che ricollega tutti gli esseri umani nell'unica stirpe dell'homo faber, che modificando il mondo modifica sé stessa ed entrambi accresce. Portando in quest'azione il seme della necessità rimpianta dal Poeta, che voleva non l'età dell'oro ma l'età del pane; e la Baldanzi, con voce icastica e perfetta, rende le parole dell'Autore delle "Ceneri" - gli uomini "necessari" finché bisognosi del necessario, "superflui" quando consumatori del "superfluo" (3) - adeguate all'oggi, e forti d'una nuova evidenza: parlando del padre che raccoglie le olive, ammette "Lui deve render conto alla terra. Io a un supermercato". (p. 174) Una necessità che crediamo importante dover ricercare e ritrovare nelle cose e negli uomini, una volta risolti i problemi "fisiologici" (il tetto il pane il libro la comunicazione) e finita la sbronza del consumo folle e "in folle"- cioè, che gira a vuoto.
Tutto ciò, avviene sulla pagina con una scrittura di rara economia ed equilibrio, senza traccia di neorealismo stracotto né di figàme neo-workish, che testimonia la caparbia vivacità d'una lingua, come l'italiano, data così spesso per morta e sempre tuttavia capace di scattare al traguardo come un centometrista. Figlia d'una tradizione aulica e pe/Dante, ma al momento migliore mèmore della lezione barbianese, per cui "si scrive quando si ha qualcosa da dire". Certo: Edoardo Nesi, in quarta, vaticina della Baldanzi che l'è "una ragazza di cui si sentirà ancora parlare a lungo" - ragion per cui consiglio all'Autrice di renovare l'antico gesto biblico di testimonianza. (4) Però, se dal mattino si vede il giorno...
1) "Nel 2006 vi sarebbero stati 1115 morti nell'industria (280 nell'edilizia), 114 nell'agricoltura e 11 tra i dipendenti statali". Da E-polis Roma del sedici aprile 2007;
2) la troverai citata nell'approfondito studio, sulle medesime materie, di Angela Perulli (Dentro la montagna, Rosenberg&Sellier, Torino 2005). Per saperne di più, e dalle vive voci, degli operai della TAV, si veda Lavorare stanca, documentario di Loredana Dordi, trasmesso da Rai Tre l'undici agosto 2005;
3) cfr. P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1981(3), pp. 62-3;
4) il mio professore di Botanica farmaceutica inesausto ricordava (per la vinca minor?) che "orchys" traduce il latino "testis", da cui "testimone" - lett. "colui che giura sui testicoli".
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