RECENSIONI
Sam Savage
Firmino
Einaudi, Pag. 184 Euro 14,00
Se torna alla mente l'insuperabile Memorie di un ratto, di Zaniewsky, è solo per un attimo, e per accantonare subito il paragone. Con quello il lettore si immergeva nelle sensazioni di un ratto, nelle emozioni di un ratto, ne condivideva le paure e gli istinti, insomma si trasformava praticamente in un ratto per tutta la durata della lettura. Qui invece ci si scontra con un tocco disneyano che provoca un transitorio fastidio iniziale. E' un topo che pensa, che parla fra sé, e che soprattutto sa leggere.
Un divoratore di libri in tutti i sensi letterali e metaforici. Dobbiamo allora interpretarlo come un apologo? E' vero che il ratto Firmino affida al rapporto con i libri la propria sopravvivenza, anche perché è il più debole della nidiata, quello destinato a rimanere a bocca asciutta, quello scartato dalla selezione naturale. Si sa, ad un certo livello dell'evoluzione, la selezione non è più affidata soltanto ai muscoli, ma anche all'intelligenza, e infine alla cultura. Partorito direttamente in una libreria, Firmino si ciba di libri per placare in un primo momento la fame, ma subito dopo per sconfiggere la solitudine. Ci riesce relativamente, perché deve misurarsi con lo scoglio dell'incomunicabilità, e lì c'è poco da fare. Reso diverso rispetto al gruppo d'origine a causa del suo rapporto con i libri, è destinato a rimanere nella classica posizione marginale di chi non riesce né a tornare indietro né a integrarsi completamente nel nuovo. Sotto questo aspetto potrebbe essere un apologo sull'immigrazione. Se vogliamo cercare un'altra metafora, possiamo leggerlo come un romanzo di formazione, e supporre che vi si rispecchi, a un certo punto, l'elemento autobiografico di un percorso adolescenziale.
Tutte queste esperienze nuove suscitarono nella mia mente un conflitto terribile tra Pembroke Books (la libreria) e il Rialto (il cinema). Ai miei occhi erano come templi rivali che si contendevano la mia venerazione: arhat e saggi da una parte, angeli dall'altra. Talvolta cedevo al richiamo dell'uno, talvolta invece a quello dell'altro.
Va specificato che gli "angeli" di cui parla sono le belle donnine discinte che il ratto ha visto sui manifesti del cinema, colpito da una folgorazione che ha fatto di lui irrimediabilmente un deviante.
Al di là di ogni possibile gioco interpretativo, la storia è godibile e il topo riesce simpatico. Dal suo furtivo punto di osservazione scaturiscono gustosi ritratti degli umani. Come quello di Norman, il proprietario della libreria.
... lasciava la scrivania vicino alla porta e andava in giro per il locale, aiutando le persone a trovare quel che desideravano. Era davvero uno spettacolo, mentre si muoveva con grazia tra di loro. Sembrava un moschettiere. Diventava Athos, silenzioso e riservato, lento all'ira, ma micidiale, se qualcuno lo provocava. Sorpreso alle spalle da una qualche domanda, ruotava su se stesso, affondava rapido lo stocco in uno scaffale in cima e tirava giù, come un pesce guizzante trafitto da un arpione, 'Morte a Venezia'.
Più avanti la storia assume toni vicini a quelli di Timbuctù, il piccolo gioiello di Paul Auster, quando Firmino si imbatte in uno scrittore hippy stagionato e drop out. Qui però l'umorismo continua a prevalere sulla tristezza, anche se il ratto, al momento di raccontare la sua storia, indeciso fra tutti gli incipit che ha trovato negli amati libri, sceglie il seguente: Questa è la storia più triste che abbia mai sentito.
di Giovanna Repetto
Un divoratore di libri in tutti i sensi letterali e metaforici. Dobbiamo allora interpretarlo come un apologo? E' vero che il ratto Firmino affida al rapporto con i libri la propria sopravvivenza, anche perché è il più debole della nidiata, quello destinato a rimanere a bocca asciutta, quello scartato dalla selezione naturale. Si sa, ad un certo livello dell'evoluzione, la selezione non è più affidata soltanto ai muscoli, ma anche all'intelligenza, e infine alla cultura. Partorito direttamente in una libreria, Firmino si ciba di libri per placare in un primo momento la fame, ma subito dopo per sconfiggere la solitudine. Ci riesce relativamente, perché deve misurarsi con lo scoglio dell'incomunicabilità, e lì c'è poco da fare. Reso diverso rispetto al gruppo d'origine a causa del suo rapporto con i libri, è destinato a rimanere nella classica posizione marginale di chi non riesce né a tornare indietro né a integrarsi completamente nel nuovo. Sotto questo aspetto potrebbe essere un apologo sull'immigrazione. Se vogliamo cercare un'altra metafora, possiamo leggerlo come un romanzo di formazione, e supporre che vi si rispecchi, a un certo punto, l'elemento autobiografico di un percorso adolescenziale.
Tutte queste esperienze nuove suscitarono nella mia mente un conflitto terribile tra Pembroke Books (la libreria) e il Rialto (il cinema). Ai miei occhi erano come templi rivali che si contendevano la mia venerazione: arhat e saggi da una parte, angeli dall'altra. Talvolta cedevo al richiamo dell'uno, talvolta invece a quello dell'altro.
Va specificato che gli "angeli" di cui parla sono le belle donnine discinte che il ratto ha visto sui manifesti del cinema, colpito da una folgorazione che ha fatto di lui irrimediabilmente un deviante.
Al di là di ogni possibile gioco interpretativo, la storia è godibile e il topo riesce simpatico. Dal suo furtivo punto di osservazione scaturiscono gustosi ritratti degli umani. Come quello di Norman, il proprietario della libreria.
... lasciava la scrivania vicino alla porta e andava in giro per il locale, aiutando le persone a trovare quel che desideravano. Era davvero uno spettacolo, mentre si muoveva con grazia tra di loro. Sembrava un moschettiere. Diventava Athos, silenzioso e riservato, lento all'ira, ma micidiale, se qualcuno lo provocava. Sorpreso alle spalle da una qualche domanda, ruotava su se stesso, affondava rapido lo stocco in uno scaffale in cima e tirava giù, come un pesce guizzante trafitto da un arpione, 'Morte a Venezia'.
Più avanti la storia assume toni vicini a quelli di Timbuctù, il piccolo gioiello di Paul Auster, quando Firmino si imbatte in uno scrittore hippy stagionato e drop out. Qui però l'umorismo continua a prevalere sulla tristezza, anche se il ratto, al momento di raccontare la sua storia, indeciso fra tutti gli incipit che ha trovato negli amati libri, sceglie il seguente: Questa è la storia più triste che abbia mai sentito.
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