RECENSIONI
Vivek Shanbhag
Ghachar Ghochar
Neri Pozza, Vivek Shanbhag, Pag. 111 Euro 13,50
Ah, la famiglia! Quante cose si possono dire sulla famiglia, croce e delizia del genere umano. In un’India molto condizionata dalla tradizione, il protagonista di questo romanzo considera un discreto progresso il fatto che, nel combinare il suo matrimonio, sia stata interpellata anche la sposa. Tutti d’accordo, dunque, anche sul fatto che la giovane coppia viva inglobata nella famiglia d’origine del marito. Ma ogni famiglia (in ogni parte del mondo, senza esclusione) ha i suoi miti e le sue regole, tanto più forti quanto più sono tacite. È come una sintassi a cui deve uniformarsi ogni contenuto. La nota stonata produce inevitabili conseguenze, la cui portata è difficile a prevedere. Il romanzo di Shanbhag può dare al palato occidentale un gradevole sapore esotico, ma questo non deve ingannare: a parte gli aspetti più superficiali, questa storia riguarda l’universalità delle relazioni umane.
La felicità di una casa poggia su atti selettivi di cecità e sordità.
Basta rifletterci mettendo da parte pregiudizi e difese, e si ammetterà che non c’è niente di più vero.
Quanto al titolo impronunciabile, si cadrebbe in errore scambiandolo per una traducibile espressione della lingua indiana. Si tratta invece di un neologismo, una frase inventata che appartiene al lessico personale della moglie del protagonista. Qui non può che scoccare il ricordo del lessico familiare di Natalia Ginzburg. Espressione inventata, dunque, ma significativa, perché viene utilizzata nel senso di garbuglio inestricabile. E sì, all’interno di una famiglia le relazioni possono diventare ingarbugliate, e allora cominciano i guai.
Lo stile è scarno e quotidiano, e per questo tanto più efficace nel mostrare come l’inquietudine possa annidarsi e crescere nel tran-tran più comune.
La nostra è una famiglia estesa. In casa ci siamo mia moglie e io, i miei genitori, mio zio e Malati. Malati è la mia sorella maggiore, tornata da noi dopo aver lasciato il marito. Suppongo che venga naturale chiedersi perché si debba vivere insieme, noi sei. Che dire, è un punto di forza delle famiglie, fingere di desiderare l’inevitabile.
Desiderare l’inevitabile. C’è una particolare attenzione, in effetti, per una sorta di igiene del desiderio. Esistono regole. C’è un desiderio lecito e doveroso, che scocca puntualmente dopo le nozze, quando i due giovani sconosciuti possono sfiorarsi in un contatto elettrizzante. Ma c’è anche il desiderio negato, il divieto di guardare oltre la propria condizione.
… non desideravamo ciò che non potevamo permetterci. Dove non c’è scelta non c’è delusione.
Non aver scelta offre la comodità di un binario tracciato, e questa è la funzione di una famiglia molto abitudinaria. Tanto più che proprio su un castello di abitudini consolidate poggia la prosperità che nel tempo si è costruita intorno all’intraprendenza imprenditoriale dello zio Chikkappa, vero perno della famiglia. La sua posizione nella gerarchia è un punto fermo e indiscutibile. Tutt’intorno ruota l’universo domestico: da un lato la collaborazione passiva e scialba degli altri uomini di casa, dall’altro l’alveare femminile, molto più complesso, che si affaccenda tra incombenze domestiche, brusio di chiacchiere e punzecchiate distribuite qua e là per ridefinire quotidianamente i confini.
Una famiglia così è in grado di affrontare tutto, di compensare ogni squilibrio, di mantenere il suo assetto con ogni mezzo possibile. Davvero, con ogni mezzo.
di Giovanna Repetto
La felicità di una casa poggia su atti selettivi di cecità e sordità.
Basta rifletterci mettendo da parte pregiudizi e difese, e si ammetterà che non c’è niente di più vero.
Quanto al titolo impronunciabile, si cadrebbe in errore scambiandolo per una traducibile espressione della lingua indiana. Si tratta invece di un neologismo, una frase inventata che appartiene al lessico personale della moglie del protagonista. Qui non può che scoccare il ricordo del lessico familiare di Natalia Ginzburg. Espressione inventata, dunque, ma significativa, perché viene utilizzata nel senso di garbuglio inestricabile. E sì, all’interno di una famiglia le relazioni possono diventare ingarbugliate, e allora cominciano i guai.
Lo stile è scarno e quotidiano, e per questo tanto più efficace nel mostrare come l’inquietudine possa annidarsi e crescere nel tran-tran più comune.
La nostra è una famiglia estesa. In casa ci siamo mia moglie e io, i miei genitori, mio zio e Malati. Malati è la mia sorella maggiore, tornata da noi dopo aver lasciato il marito. Suppongo che venga naturale chiedersi perché si debba vivere insieme, noi sei. Che dire, è un punto di forza delle famiglie, fingere di desiderare l’inevitabile.
Desiderare l’inevitabile. C’è una particolare attenzione, in effetti, per una sorta di igiene del desiderio. Esistono regole. C’è un desiderio lecito e doveroso, che scocca puntualmente dopo le nozze, quando i due giovani sconosciuti possono sfiorarsi in un contatto elettrizzante. Ma c’è anche il desiderio negato, il divieto di guardare oltre la propria condizione.
… non desideravamo ciò che non potevamo permetterci. Dove non c’è scelta non c’è delusione.
Non aver scelta offre la comodità di un binario tracciato, e questa è la funzione di una famiglia molto abitudinaria. Tanto più che proprio su un castello di abitudini consolidate poggia la prosperità che nel tempo si è costruita intorno all’intraprendenza imprenditoriale dello zio Chikkappa, vero perno della famiglia. La sua posizione nella gerarchia è un punto fermo e indiscutibile. Tutt’intorno ruota l’universo domestico: da un lato la collaborazione passiva e scialba degli altri uomini di casa, dall’altro l’alveare femminile, molto più complesso, che si affaccenda tra incombenze domestiche, brusio di chiacchiere e punzecchiate distribuite qua e là per ridefinire quotidianamente i confini.
Una famiglia così è in grado di affrontare tutto, di compensare ogni squilibrio, di mantenere il suo assetto con ogni mezzo possibile. Davvero, con ogni mezzo.
di Giovanna Repetto
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