RECENSIONI
Otello Marcacci
Gobbi come i Pirenei
Neo Edizioni, Pag. 288 Euro 15,00
Con la parola romanzo copriamo ormai una varietà di scritture inesauribile. Tanto che recentemente Guido Mazzoni ha scritto che di romanzo si può parlare a fronte di un testo letterario che narra "in qualsiasi genere e in qualsiasi modo". E lo ha scritto peraltro in un libro di ricerca densissimo che porta il titolo "Teoria del romanzo". Ora, che si rinunci a normare un oggetto estetico a priori è persino doveroso, e ognuno è libero di scrivere o leggere "romanzi" come meglio crede. A maggior ragione è bene che al lettore a caccia di libri meno clamorosamente vomitevoli di quelli che per lo più vengono impilati uno sull'altro all'entrata delle librerie – "prodotti" di veri e propri cartelli di scriventi-editori-distributori-librai - si dia un'idea la meno approssimativa possibile delle proposte d'altro tipo.
Penso per esempio a due libri della piccolissima ma coriacea – temprata in terra d'Abruzzo – Neo Edizioni. Gobbi come i Pirenei di Otello Marcacci e Le 13 cose di Alessandro Turati, sono lavori di due esordienti. Se il primo si organizza intorno a una storia che a tratti ricorda il romanzo di formazione (seppure in una chiave ironica e non molto convinta) il secondo richiama i modi del monologo comico e dello slapstick, frammentato in una serie "di trovate e invenzioni" (quarta di copertina) e divagazioni sistematiche (l'ossimoro è dovuto).
Il personaggio-voce narrante dei libri di Turati è un disadattato, un commediante, sospeso a metà fra sarcasmo e patetismo, vive una vita da fancazzista, sembrerebbe aspirare a una qualche vertigine esistenziale ma si accontenta della battuta. In epigrafe Turati cita Céline, ma mi pare meglio sintonizzato su autori come Campanile, forse Paolo Nori, e persino Fantozzi ha la sua parte ( potrebbe benissimo non aver letto nessuno dei tre, ma per dire: è chiara una certa tipologia del raccontare).
Diverso il caso di Marcacci, esordiente quasi cinquantenne, pure lui alle prese con una voce narrante "verbigerante" (avrebbe detto il Celati d'epoca) di protagonisti poco adatti a esserlo, pure lui autoindulgente con il bisogno non sempre tenuto a freno di "raccontare tutto" ("ho il gusto del cazzeggio" confessa) e dire troppo con il corollario di dover stupire, come capita agli esordienti, oppure non sfrondare il dovuto, specialmente nei dialoghi, un po' ingenui. Il romanzo qui è sottoposto a una strutturazione più robusta, racconta una storia con un certo respiro, quella del ciclista Eugenio Bollini, professionista sì ma di scarso talento, alle prese con un bilancio fallimentare anche per ciò che attiene alla vita privata, un matrimonio andato a male – e un certo spirito burlesco, indisponente, compiaciuto dei priori limiti. Ora con i limiti dei loro personaggi entrambi gli autori sembrano giocare in maniera eccessiva, confondendo quelli dei personaggi appunto con i propri, che sono autoriali, e prima che linguistici e stilistici, di visione. Gli è che uno sfigato, in letteratura, un personaggio sfigato, il riscatto dovrebbe cercarlo attraverso una via differente dall'esibizione di sé, cosa che in entrambi i libri spesso non accade. In luogo del compiacimento dei propri fallimenti, e del facile ricorso al pastiche (il caso di Turati) o del didascalico resoconto di notizie inutili (Marcacci) una voce narrante più efficace avrebbe dovuto ricorrere a un saggio understatement. Si tratta insomma di lavori potenzialmente discreti che avrebbero necessitato di un maggiore rigore formale, di lingua e di struttura. Due scrittori da rivedere.
di Michele Lupo
Penso per esempio a due libri della piccolissima ma coriacea – temprata in terra d'Abruzzo – Neo Edizioni. Gobbi come i Pirenei di Otello Marcacci e Le 13 cose di Alessandro Turati, sono lavori di due esordienti. Se il primo si organizza intorno a una storia che a tratti ricorda il romanzo di formazione (seppure in una chiave ironica e non molto convinta) il secondo richiama i modi del monologo comico e dello slapstick, frammentato in una serie "di trovate e invenzioni" (quarta di copertina) e divagazioni sistematiche (l'ossimoro è dovuto).
Il personaggio-voce narrante dei libri di Turati è un disadattato, un commediante, sospeso a metà fra sarcasmo e patetismo, vive una vita da fancazzista, sembrerebbe aspirare a una qualche vertigine esistenziale ma si accontenta della battuta. In epigrafe Turati cita Céline, ma mi pare meglio sintonizzato su autori come Campanile, forse Paolo Nori, e persino Fantozzi ha la sua parte ( potrebbe benissimo non aver letto nessuno dei tre, ma per dire: è chiara una certa tipologia del raccontare).
Diverso il caso di Marcacci, esordiente quasi cinquantenne, pure lui alle prese con una voce narrante "verbigerante" (avrebbe detto il Celati d'epoca) di protagonisti poco adatti a esserlo, pure lui autoindulgente con il bisogno non sempre tenuto a freno di "raccontare tutto" ("ho il gusto del cazzeggio" confessa) e dire troppo con il corollario di dover stupire, come capita agli esordienti, oppure non sfrondare il dovuto, specialmente nei dialoghi, un po' ingenui. Il romanzo qui è sottoposto a una strutturazione più robusta, racconta una storia con un certo respiro, quella del ciclista Eugenio Bollini, professionista sì ma di scarso talento, alle prese con un bilancio fallimentare anche per ciò che attiene alla vita privata, un matrimonio andato a male – e un certo spirito burlesco, indisponente, compiaciuto dei priori limiti. Ora con i limiti dei loro personaggi entrambi gli autori sembrano giocare in maniera eccessiva, confondendo quelli dei personaggi appunto con i propri, che sono autoriali, e prima che linguistici e stilistici, di visione. Gli è che uno sfigato, in letteratura, un personaggio sfigato, il riscatto dovrebbe cercarlo attraverso una via differente dall'esibizione di sé, cosa che in entrambi i libri spesso non accade. In luogo del compiacimento dei propri fallimenti, e del facile ricorso al pastiche (il caso di Turati) o del didascalico resoconto di notizie inutili (Marcacci) una voce narrante più efficace avrebbe dovuto ricorrere a un saggio understatement. Si tratta insomma di lavori potenzialmente discreti che avrebbero necessitato di un maggiore rigore formale, di lingua e di struttura. Due scrittori da rivedere.
di Michele Lupo
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