RECENSIONI
Waseem Mahmood
Good Morning Afghanistan
Edizioni Clandestine, Pag. 222 Euro 14,00
...Come la maggior parte dei figli della seconda generazione di immigranti, avevo sofferto, durante il periodo adolescenziale, di una profonda crisi d'identità: non ero pachistano, né inglese. Fino a quel momento tale dicotomia mi aveva portato semplicemente a garantire il pieno sostegno alla squadra pachistana di cricket, anche quando giocava contro l'Inghilterra e a tifare per quest'ultima in tutti gli altri sport.
Al di là di questa schizofrenia da tifoso, Waseem Mahmood, giornalista ed esperto di sviluppo dei mezzi di comunicazione nelle zone devastate da conflitti, è stato l'artefice di una straordinaria avventura: quella di raccontare la realtà tragica dell'Afghanistan attraverso i microfoni di una radio improvvista con mezzi di fortuna, ma proprio per questo essenziale e punto di riferimento per la popolazione locale.
Fu in quella mattina di febbraio che il nome 'Good Morning Afghanistan', fu coniato da Manocher – non come velato riferimento al film di Robin Williams sulla radio in Vietnam, come dovetti spiegare ad ogni giornalista che mi intervistò in seguito, ma perché 'Suba Khair' espressione dari per 'buongiorno', tradotto letteralmente significa 'alba nuova', un titolo che l'equipe sentiva appropriato al momento storico che il paese attraversava.
Paradossalmente, quello che più colpisce di questo libro non è la ricostruzione dell'improba fatica di dare una voce al popolo afghano, ma la voce stessa di questa gente, martoriata dalla fame, dalla miseria, dall'ingiustizia e dalla violenza.
Mahmood ci consegna ritratti indimenticabili, a cominciare da Farida, giovane afghana davvero emblema di un' intera comunità: figlia di un politico, fugge dal paese all'arrivo dell'Armata sovietica. Vi ritorna nel '96 quando il paese è in mano ai talebani, perde tre sorelle falcidiate da una bomba mentre tornavano da scuola. Fugge a Peshawa in Pakistan quando capisce che il clima è intollerabile. Torna di nuovo dopo la vittoria dell'Alleanza credendo in un paese libero ma, per un incidente domestico, rimane gravemente ustionata e perde la vita perché ricoverata in un ospedale del luogo carente di tutto.
Ma Mahmood ci consegna anche profili appena accennati, ma ricchi di una livida diperazione, come quell'ufficiale locale in pensione che ha perso il figlio undicenne durante un incursione americana (le operazioni intelligenti?) e che non capisce perché agli afghani è stato riservato un destino del genere Non abbiamo mai visto né al-Qaeda né i talebani eppure ci bombardano. Dove abbiamo sbagliato? O la yankee Abi che di nuovo negli States decide comunque di ritornare in Afghanistan perché ormai il paese gli ha preso la mente e il cuore.
E ci racconta di episodi emblematici ed antipatici: come l'auspicato premio assegnato da MTV alla trasmissione Good Morning Vietnam, ma all'ultimo momento non consegnato perché alla cerimonia di premiazione si è preferita una puntata dedicata ad una squadra di giocatori inglesi che durante una partita in Slovacchia era stata fatta oggetto di epiteti razzisti.
Proposi un brindisi: "Che vada a farsi fottere MTV!"
Mi sembra sacrosanto no?
Insomma un libro questo dolente, ma nello stesso tempo appassionante, tragico, ma essenziale. Se un neo ha è nell'imparzialità che a volte si coglie nei giudizi e nelle considerazioni del giornalista Mahmood nei riguardi della situazione politica. Crediamo che non si possa essere del tutto imparziali di fronte a simili tragedie. Ma l'uomo Mahmood ci ha scaldato il cuore. E quel calore ce lo facciamo ampiamente bastare.
di Alfredo Ronci
Al di là di questa schizofrenia da tifoso, Waseem Mahmood, giornalista ed esperto di sviluppo dei mezzi di comunicazione nelle zone devastate da conflitti, è stato l'artefice di una straordinaria avventura: quella di raccontare la realtà tragica dell'Afghanistan attraverso i microfoni di una radio improvvista con mezzi di fortuna, ma proprio per questo essenziale e punto di riferimento per la popolazione locale.
Fu in quella mattina di febbraio che il nome 'Good Morning Afghanistan', fu coniato da Manocher – non come velato riferimento al film di Robin Williams sulla radio in Vietnam, come dovetti spiegare ad ogni giornalista che mi intervistò in seguito, ma perché 'Suba Khair' espressione dari per 'buongiorno', tradotto letteralmente significa 'alba nuova', un titolo che l'equipe sentiva appropriato al momento storico che il paese attraversava.
Paradossalmente, quello che più colpisce di questo libro non è la ricostruzione dell'improba fatica di dare una voce al popolo afghano, ma la voce stessa di questa gente, martoriata dalla fame, dalla miseria, dall'ingiustizia e dalla violenza.
Mahmood ci consegna ritratti indimenticabili, a cominciare da Farida, giovane afghana davvero emblema di un' intera comunità: figlia di un politico, fugge dal paese all'arrivo dell'Armata sovietica. Vi ritorna nel '96 quando il paese è in mano ai talebani, perde tre sorelle falcidiate da una bomba mentre tornavano da scuola. Fugge a Peshawa in Pakistan quando capisce che il clima è intollerabile. Torna di nuovo dopo la vittoria dell'Alleanza credendo in un paese libero ma, per un incidente domestico, rimane gravemente ustionata e perde la vita perché ricoverata in un ospedale del luogo carente di tutto.
Ma Mahmood ci consegna anche profili appena accennati, ma ricchi di una livida diperazione, come quell'ufficiale locale in pensione che ha perso il figlio undicenne durante un incursione americana (le operazioni intelligenti?) e che non capisce perché agli afghani è stato riservato un destino del genere Non abbiamo mai visto né al-Qaeda né i talebani eppure ci bombardano. Dove abbiamo sbagliato? O la yankee Abi che di nuovo negli States decide comunque di ritornare in Afghanistan perché ormai il paese gli ha preso la mente e il cuore.
E ci racconta di episodi emblematici ed antipatici: come l'auspicato premio assegnato da MTV alla trasmissione Good Morning Vietnam, ma all'ultimo momento non consegnato perché alla cerimonia di premiazione si è preferita una puntata dedicata ad una squadra di giocatori inglesi che durante una partita in Slovacchia era stata fatta oggetto di epiteti razzisti.
Proposi un brindisi: "Che vada a farsi fottere MTV!"
Mi sembra sacrosanto no?
Insomma un libro questo dolente, ma nello stesso tempo appassionante, tragico, ma essenziale. Se un neo ha è nell'imparzialità che a volte si coglie nei giudizi e nelle considerazioni del giornalista Mahmood nei riguardi della situazione politica. Crediamo che non si possa essere del tutto imparziali di fronte a simili tragedie. Ma l'uomo Mahmood ci ha scaldato il cuore. E quel calore ce lo facciamo ampiamente bastare.
di Alfredo Ronci
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