RECENSIONI
William Gibson
Guerreros
Mondadori, Pag.384 Euro 17,50
Ho aspettato tanto per trovarmi infine tra le mani un libro orrendo, davvero molto brutto! Scialbo il linguaggio e lo stile vorrebbe a tutti i costi essere allusivo. A cosa? Alla rete e ai suoi dannati? Ma per favore! Sembra pessima tv per ragazzini scemi e con ostentata banalità si mescola il nome di Bond con quello di un altro prodotto. Chiedo a Daniele Brolli, che stimo, perchè si sia scomodato nel fornire un lavoro di cesello, che stavolta l'americano non meritava.
Gibson in questo voluminoso zibaldone si comporta, letterariamente parlando, come l'ultimo scrittore cane e zombie della provincia italo-statunitense. Costui per risultare cool (termine che ha che fare con la cacca, com'è naturale!) ci tedia coi suoi riempitivi strategici, a base di nozioni tecnologiche e sequele di marche. E' una dichiarazione di appartenenza alla schiera dei narratori leccapadelle di stilisti, ristoratori di grido, mercanti di fama e via discorrendo? William ubbidisce alle richieste del mecenate establishment? Indossa lustrini su giacchetta firmata prima di entrare nel salotto di mediovacche e altosuini? Mi dispiace, ma 'sto tomo è indigeribile, carico di elencazioni senza respiro, azioni non sviluppate, ritmo monotono, anzi assenza di ritmo, di descrizioni, di ambientazioni. Ah, naturalmente si potrebbe obiettare che tutto è compreso nella lista: il popcorn, i guerrieri scimuniti, il machete, Cuba, i cinesi, lei, lui e loro, il Sistema maiuscolo e i microcosmi delle tenebre, le scarpette da tennis con nome e cognome e modello che mi rifiuto di citare, cazzo!, e poi l'iPod e gesù cristo, marx, lenin (uso il minuscolo, fa lo stesso per 'sto rubricone dell'insipienza!). Ma quale trama, quali storie e personaggi, quale scavo psicologico: è un incubo, non in quanto tale e perciò raccontabile e leggibile, ma per la maniera in cui è scritto! Mi sembra di aprire un catalogo zeppo di scempiaggini, che accoglie l'insulso per tenere fuori la vita. Non c'è alcun punto di vista, nessun mondo se non quello della ripetizione compiaciuta, imposta dall'Autore, dei loghi e delle griffes; compaiono inoltre: un datore di lavoro, simil-hackers, una tizia, ma sono solo pretesti per continuare l'esercizio della sfilza. Quando si è stanchi, quando non si sa come dire e dare, si cambia registro. Qui non c'è traccia di quel filo di poesia che teneva in piedi per esempio, MonnaLisaOverdrive, o quell'ardore, riga dopo riga, che ti teneva sveglio per finir di leggere Giù nel ciberspazio. In attesa della pubblicazione, avevo dato una scorsa con entusiasmo, alle interviste rilasciate da Gibson. Mi era sembrato, ancora, uomo capace di affrontare i temi dell'industrializzazione e della computerizzazione pervasive con un discernimento e una lucidità da urlo e forse fino ad allora, in grado di ben romanzare. Ed eccoci, invece, di fronte ad un enorme aborto, tutto scenografico, con una impostazione involuta da trattamento e sceneggiatura cinematografici. Caro William, telefona a un produttore, non ammorbarci e non lasciarci raccapricciati da codesto divenire senza favella. P.K. Dick era un visionario, raccontava, immaginava e riduceva in discorso, non in meccaniche e piatte dicerie. Il protagonista di quest'opera è l'equivoco linguistico, anzichè l'enigma; l'ambiguità non è ideata ad hoc, grazie a un intreccio complesso, ma almeno arduo e bello. Qui c'è solo la complicazione, il depistaggio sempre per via di quell'enumerazione meticolosa di cose. William sei diventato un deserto! L'aridità tenta di trasformarsi in verbo e alla fine è un baco che tesse senza bava. Mamma mia! E' come la vagina secca, come il sesso non lubrificato! Aiuto! Ormai sei un teorico (lo desumo da certi articoli) e fai il teorico che ne guadagni, per la miseria! Perchè ostinarsi a continuare un clichè? Sfidare significa riuscire; significa essere memore, ma se il primo a smarrirti sei tu, non più adatto a restituire letteratura, lascia perdere! Invenzione, vicende che si snodano, scrittura che tende e si fa leggere, o che conduce lungo percorsi persino tortuosissimi, sofisticati, ma che districa nodi attraverso il verbo, il raccontare: questo movimento ci si aspettava, non un monumento alla fissità intrisa di cultura cimiteriale. Il new Gibson non decolla: niente volo, dunque pessima caduta in picchiata. Guerreros è un'esperienza tragica, per me che l'ho letto (gulp!), per Daniele che s'è prosciugato a tradurlo, per te che l'hai scritto. Avrebbe dovuto essere, se di tragedia e robe sinistre, o paurose vogliamo parlare, accattivante e dolorosa come narrazione. Cerco di spiegarmi meglio, perchè immagino quanta fatica sia costato 'sto lavoro a Brolli per star dietro a un vero yankee che ci ha dato junk food. La narrazione dicevo, è carente nell'abbinamento dei termini, delle situazioni, dei dialoghi, nello svolgimento che si fa pesante come costrutto. Insomma è un gioco grammaticale sterile e freddo, che non consente di utilizzare alcuna chiave d'accesso, alcun momento di distensione. Non mi si venga a raccontare che la cosa è voluta; nauseare in letteratura non lo si fa con la nausea, ma con la maestria e qui non compare neppure di straforo. Mi aspettavo davvero di essere convogliata nella rete; avrei accettato il disagio di qualcosa che prende lo stomaco, ma che si facesse leggero perchè scritto da dio! Purtroppo tra autoreferenzialità pseudo artistica di stampo snob rincoglionito e rincitrulliti da una missione ( ma per favore!), radicati in un esilio, provati da ogni tipo di attesa e di perdita, soprattutto quella di una pagina decente, otteniamo un risultato classico: il polpettone! (Anche quando il Nostro azzarda l'ironia e il dissacrante, per esempio, a pag.129).
di Pina D'Aria
Gibson in questo voluminoso zibaldone si comporta, letterariamente parlando, come l'ultimo scrittore cane e zombie della provincia italo-statunitense. Costui per risultare cool (termine che ha che fare con la cacca, com'è naturale!) ci tedia coi suoi riempitivi strategici, a base di nozioni tecnologiche e sequele di marche. E' una dichiarazione di appartenenza alla schiera dei narratori leccapadelle di stilisti, ristoratori di grido, mercanti di fama e via discorrendo? William ubbidisce alle richieste del mecenate establishment? Indossa lustrini su giacchetta firmata prima di entrare nel salotto di mediovacche e altosuini? Mi dispiace, ma 'sto tomo è indigeribile, carico di elencazioni senza respiro, azioni non sviluppate, ritmo monotono, anzi assenza di ritmo, di descrizioni, di ambientazioni. Ah, naturalmente si potrebbe obiettare che tutto è compreso nella lista: il popcorn, i guerrieri scimuniti, il machete, Cuba, i cinesi, lei, lui e loro, il Sistema maiuscolo e i microcosmi delle tenebre, le scarpette da tennis con nome e cognome e modello che mi rifiuto di citare, cazzo!, e poi l'iPod e gesù cristo, marx, lenin (uso il minuscolo, fa lo stesso per 'sto rubricone dell'insipienza!). Ma quale trama, quali storie e personaggi, quale scavo psicologico: è un incubo, non in quanto tale e perciò raccontabile e leggibile, ma per la maniera in cui è scritto! Mi sembra di aprire un catalogo zeppo di scempiaggini, che accoglie l'insulso per tenere fuori la vita. Non c'è alcun punto di vista, nessun mondo se non quello della ripetizione compiaciuta, imposta dall'Autore, dei loghi e delle griffes; compaiono inoltre: un datore di lavoro, simil-hackers, una tizia, ma sono solo pretesti per continuare l'esercizio della sfilza. Quando si è stanchi, quando non si sa come dire e dare, si cambia registro. Qui non c'è traccia di quel filo di poesia che teneva in piedi per esempio, MonnaLisaOverdrive, o quell'ardore, riga dopo riga, che ti teneva sveglio per finir di leggere Giù nel ciberspazio. In attesa della pubblicazione, avevo dato una scorsa con entusiasmo, alle interviste rilasciate da Gibson. Mi era sembrato, ancora, uomo capace di affrontare i temi dell'industrializzazione e della computerizzazione pervasive con un discernimento e una lucidità da urlo e forse fino ad allora, in grado di ben romanzare. Ed eccoci, invece, di fronte ad un enorme aborto, tutto scenografico, con una impostazione involuta da trattamento e sceneggiatura cinematografici. Caro William, telefona a un produttore, non ammorbarci e non lasciarci raccapricciati da codesto divenire senza favella. P.K. Dick era un visionario, raccontava, immaginava e riduceva in discorso, non in meccaniche e piatte dicerie. Il protagonista di quest'opera è l'equivoco linguistico, anzichè l'enigma; l'ambiguità non è ideata ad hoc, grazie a un intreccio complesso, ma almeno arduo e bello. Qui c'è solo la complicazione, il depistaggio sempre per via di quell'enumerazione meticolosa di cose. William sei diventato un deserto! L'aridità tenta di trasformarsi in verbo e alla fine è un baco che tesse senza bava. Mamma mia! E' come la vagina secca, come il sesso non lubrificato! Aiuto! Ormai sei un teorico (lo desumo da certi articoli) e fai il teorico che ne guadagni, per la miseria! Perchè ostinarsi a continuare un clichè? Sfidare significa riuscire; significa essere memore, ma se il primo a smarrirti sei tu, non più adatto a restituire letteratura, lascia perdere! Invenzione, vicende che si snodano, scrittura che tende e si fa leggere, o che conduce lungo percorsi persino tortuosissimi, sofisticati, ma che districa nodi attraverso il verbo, il raccontare: questo movimento ci si aspettava, non un monumento alla fissità intrisa di cultura cimiteriale. Il new Gibson non decolla: niente volo, dunque pessima caduta in picchiata. Guerreros è un'esperienza tragica, per me che l'ho letto (gulp!), per Daniele che s'è prosciugato a tradurlo, per te che l'hai scritto. Avrebbe dovuto essere, se di tragedia e robe sinistre, o paurose vogliamo parlare, accattivante e dolorosa come narrazione. Cerco di spiegarmi meglio, perchè immagino quanta fatica sia costato 'sto lavoro a Brolli per star dietro a un vero yankee che ci ha dato junk food. La narrazione dicevo, è carente nell'abbinamento dei termini, delle situazioni, dei dialoghi, nello svolgimento che si fa pesante come costrutto. Insomma è un gioco grammaticale sterile e freddo, che non consente di utilizzare alcuna chiave d'accesso, alcun momento di distensione. Non mi si venga a raccontare che la cosa è voluta; nauseare in letteratura non lo si fa con la nausea, ma con la maestria e qui non compare neppure di straforo. Mi aspettavo davvero di essere convogliata nella rete; avrei accettato il disagio di qualcosa che prende lo stomaco, ma che si facesse leggero perchè scritto da dio! Purtroppo tra autoreferenzialità pseudo artistica di stampo snob rincoglionito e rincitrulliti da una missione ( ma per favore!), radicati in un esilio, provati da ogni tipo di attesa e di perdita, soprattutto quella di una pagina decente, otteniamo un risultato classico: il polpettone! (Anche quando il Nostro azzarda l'ironia e il dissacrante, per esempio, a pag.129).
di Pina D'Aria
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