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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Marco Franzoso

Il Bambino indaco

Einaudi, Pag. 132 Euro 16,00
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Ho odiato furiosamente la coprotagonista del romanzo di Marco Franzoso, Il bambino indaco. L'ho odiata da farmi gonfiare le vene di rabbia, di ira, l'ho odiata tanto da stringere le pagine di questo libro con una forza tale da farle sfrigolare di un clangore di cellulosa.

Ho odiato Isabel da volerla morta, quando già dall'inizio sapevo che lo era, fino all'ultima pagina e non sono riuscito a fare a meno di continuare ad avere questo livore represso dopo aver poggiato il volume.

Perché? Forse perché lo scrittore, davvero bravo nel saper far sprofondare con tutte le scarpe il lettore nella storia, gioca "sporco" con il tema dell'amore, dei figli, della violenza dell'affetto. O forse perché ho una figlia e questo rimette in gioco ogni tipo di mio approccio a letture di questo genere, facendomi rivivere in maniera passiva la peggiore idea di quello che poteva succedermi o succedere alla piccola. Di come sia facile cadere nello sconforto, nell'idea dell'inadeguatezza genitoriale e di coppia, di quanto l'inerme saccottino che tieni tra le braccia abbia un peso così consistente da farti piegare ogni volta la schiena come Atlante.

Nell'avventurarsi tra queste pagine c'è da mettere in conto animali feroci come l'emotività e l'irrazionalità, l'istinto paterno e materno che albergano in ognuno di noi e che man mano si mostrano uscendo allo scoperto dall'ombra della giungla di una storia semplice: Carlo incontra Isabel. Si piacciono, convivono, aspettano un bambino e si sposano. Il bambino, agli occhi della madre "alternativa" diventa un feto da accudire, un piccolo gioiello che deve crescere senza essere inquinato da carne, energie negative, presenze non ideali. Diventa l'incarnato di ciò che non dovrebbe essere un bambino in realtà. Un affamato esserino che vorrebbe soltanto del cibo per continuare la sua nuova esperienza in questo mondo. Il padre che all'inizio cerca uno status quo con la moglie e le sue idee, alla fine deve fare i conti con un figlio al limite tra la sopravvivenza e l'evanescenza.

Giungla rumorosa, piena di insidie che si nascondono in frasi non dette, in maniere gentili, piccoli trucchi, preoccupazioni che covano e disintegrano la fame di vita stessa saziandola con il niente delle congetture logoranti di menti rabbiose e stanche.

La storia è benzina sul fuoco degli affetti anche indiretti che si possono avere nei riguardi di un bambino, di un nipote, del figlio di una cara amica. Figurarsi per un neo papà.

Soltanto molte ore dopo e forse scrivendone, colgo anche il messaggio di un amore estremo, del senso di solitudine che l'aspettativa può causare, nella volontà di essere all'altezza di un corpicino che in quel momento magari non ha altre pretese che quella di essere cresciuto fisicamente, di saziarsi di cibo e amore. Senza pensare troppo, senza essere troppo castrati dalle teorie di qualsiasi genere e filosofia, sul benessere dei propri bambini.

Isabel è una figura che riporta l'attenzione sul mondo che va a rotoli, su figure di santoni e vegani, purificatori di auree e pediatri con filosofie ascetiche, ma è anche la summa di tutte le preoccupazioni di una donna che si trova a scindersi in una nuova creatura e che ha "bisogno" di una sua essenziale strada da seguire. L'odio mi resta attaccato addosso perché odio la sua cecità, ma mi sale anche la pietà, il dolore per una donna sola e un marito che non ha gli attributi necessari per poter prendere in mano la situazione, che vive da pusillanime e sa soltanto reggersi la testa gravata dagli eventi, senza saper davvero reagire, trasmettendo comunque un flusso empatico senza pari.

E' un viaggio che turba, chiunque, per la sua cruda e verosimile autenticità, una storia che non ha bisogno di status familiari per poter essere letta con una partecipazione innaturale.





di Alex Pietrogiacomi


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