RECENSIONI
Antonio Mazziotta
Il buio alla finestra
Il Filo, Terra Voci Nuove, Pag. 90 Euro 13,50
Nelle varie possibilità espressive del racconto ce ne è una che si deve più o meno collocare, per formato, a metà tra il romanzo e la novella: ed è, forse, questo formato tra i più difficili e ingrati da gestire.
Ora non è il caso di mettersi a tirare giù teorie qui in breve, ma si può essere velocemente d'accordo sul fatto che il romanzo gode di una più o meno grande complessità strutturale, e di certe elaborate possibilità panoramiche nello sviluppo delle situazioni e dei personaggi; allo stesso modo si può essere d'accordo immaginando che la novella, nello sviluppo di una sola situazione o personaggio, offra il destro al lettore di farsi incatenare all'irresistibile retorica del suo movimento patetico.
Qualcuno ha detto che un romanzo dovrebbe travolgere come il mare, e che la novella è un fiume nel quale si può decidere di entrare o non entrare: ma una volta entrati, una buona novella, ha sempre qualcosa di tragicamente eracliteo, e offre (carattere è destino) lo spettacolo di quel carattere essenziale dell'uomo che è il suo destino di nascita e crescita e morte: proprio come nella più celebre delle buone novelle.
Detto questo, insomma che dire del formato mediano di cui sopra? Che certo, pur avendo goduto spesso di un buon successo di pubblico, sembra perennemente condannato ad un limbo da opera minore; e questo malgrado il particolare sforzo compositivo che comporta, perché è questo un tipo di racconto delicato a maneggiarsi, che bisogna sapere manovrare con la cura e con l'abilità del miniaturista: schizzare in pochi tratti un personaggio e il suo destino intero, l'ambiente in cui questo ha luogo, e le possibili diramazioni; e dare, in più, l'illusione prospettica, pittorica, che in tanta materia ci passi la vita, ci sia del respiro.
E questo, malgrado non poche buone intuizioni, è quanto non riesce a fare il racconto di Antonio Mazziotta, Il buio alla finestra, storia di due donne, storia del loro amore e della loro vita: una materia che variamente si presta a raccontare una forma del tempo (e troppo di scorcio se ne accorge l'autore in qualche breve brano concettoso di marca manniana a cui, purtroppo non dà seguito), e che viene ridotta ad una cronaca piuttosto esatta e dall'inevitabile effetto compilativo.
Compilativo, come se il libro servisse a raccogliere un certo catalogo di sentimenti e situazioni; sentimenti e situazioni che vengono, pare, ripresi di peso dalla storia del romanzo: un'operazione da mitologo sul mito.
E non deve essere certo un caso se, in assenza della capacità di rappresentare il tempo e i sentimenti che si sviluppano in essi, l'ostensione di questo tema viene affidata ad una scrittura di una pulizia e correttezza ammirevole.
E, forse, è questo il punto da cui si dovrebbe ricominciare, da quell'urgenza della conoscenza, da quell'assillo della verità in cui chi racconta o ascolta una storia scopre il nerbo dell'anima con le sue ossessioni e malattie, cioè con la sua profondità cognitiva; si dovrebbe ricominciare da quell'indifferenza dell'anima a niente altro che non sia la sua prorompente vocazione all'essere, quale si esprime nella maniera difforme e morbosa dei grandi racconti: i grandi racconti che vanno avanti a marcia forzata e passi ineguali e sghembi pur di precipitare nel punto; i grandi racconti che soffrono la paralisi, il singhiozzo e si esaltano nell'elissi; al contrario i grandi racconti che vivono nella pazienza lunga che dà corpo all'anima, nella digressione che ne ramifica l'intelligenza; i grandi racconti che esplorano fisiologie mostruose, e hanno corpi mirabilmente patologici, fin nella lingua.
Proust, in un saggio pubblicato su Le Figaro poco tempo prima di morire difendeva Gustav Flaubert da chi lo accusava di sgrammaticare: il y a une beauté grammaticale qui n'a rien à voir avec la corretion.
E certo a Proust non mancava l'urgenza di sgrammaticare la lingua (passaggi dal singolare al plurale, dal concreto all'astratto: lo spettacolo dell'anima che diventa pensiero), o di distorcere la fisiologia dei personaggi: le famose vertebre di fronte della zia che tanto Gide ebbe a rimproverargli (e che costituirono, del resto, motivo di rifiuto presso Gallimard): errori da povero recluso gnostico, asmatico e blasfemo tutto intento a cercare la verità dentro un mondo di cui era il Dio: un caso patologico da porre all'attenzione di medici psichiatri, grammatici, maestri spirituali e lettori editoriali; un caso a cui si dovrebbe cercare di ridurre ogni scrittore voglia essere uno scrittore.
di Pier Paolo Di Mino
Ora non è il caso di mettersi a tirare giù teorie qui in breve, ma si può essere velocemente d'accordo sul fatto che il romanzo gode di una più o meno grande complessità strutturale, e di certe elaborate possibilità panoramiche nello sviluppo delle situazioni e dei personaggi; allo stesso modo si può essere d'accordo immaginando che la novella, nello sviluppo di una sola situazione o personaggio, offra il destro al lettore di farsi incatenare all'irresistibile retorica del suo movimento patetico.
Qualcuno ha detto che un romanzo dovrebbe travolgere come il mare, e che la novella è un fiume nel quale si può decidere di entrare o non entrare: ma una volta entrati, una buona novella, ha sempre qualcosa di tragicamente eracliteo, e offre (carattere è destino) lo spettacolo di quel carattere essenziale dell'uomo che è il suo destino di nascita e crescita e morte: proprio come nella più celebre delle buone novelle.
Detto questo, insomma che dire del formato mediano di cui sopra? Che certo, pur avendo goduto spesso di un buon successo di pubblico, sembra perennemente condannato ad un limbo da opera minore; e questo malgrado il particolare sforzo compositivo che comporta, perché è questo un tipo di racconto delicato a maneggiarsi, che bisogna sapere manovrare con la cura e con l'abilità del miniaturista: schizzare in pochi tratti un personaggio e il suo destino intero, l'ambiente in cui questo ha luogo, e le possibili diramazioni; e dare, in più, l'illusione prospettica, pittorica, che in tanta materia ci passi la vita, ci sia del respiro.
E questo, malgrado non poche buone intuizioni, è quanto non riesce a fare il racconto di Antonio Mazziotta, Il buio alla finestra, storia di due donne, storia del loro amore e della loro vita: una materia che variamente si presta a raccontare una forma del tempo (e troppo di scorcio se ne accorge l'autore in qualche breve brano concettoso di marca manniana a cui, purtroppo non dà seguito), e che viene ridotta ad una cronaca piuttosto esatta e dall'inevitabile effetto compilativo.
Compilativo, come se il libro servisse a raccogliere un certo catalogo di sentimenti e situazioni; sentimenti e situazioni che vengono, pare, ripresi di peso dalla storia del romanzo: un'operazione da mitologo sul mito.
E non deve essere certo un caso se, in assenza della capacità di rappresentare il tempo e i sentimenti che si sviluppano in essi, l'ostensione di questo tema viene affidata ad una scrittura di una pulizia e correttezza ammirevole.
E, forse, è questo il punto da cui si dovrebbe ricominciare, da quell'urgenza della conoscenza, da quell'assillo della verità in cui chi racconta o ascolta una storia scopre il nerbo dell'anima con le sue ossessioni e malattie, cioè con la sua profondità cognitiva; si dovrebbe ricominciare da quell'indifferenza dell'anima a niente altro che non sia la sua prorompente vocazione all'essere, quale si esprime nella maniera difforme e morbosa dei grandi racconti: i grandi racconti che vanno avanti a marcia forzata e passi ineguali e sghembi pur di precipitare nel punto; i grandi racconti che soffrono la paralisi, il singhiozzo e si esaltano nell'elissi; al contrario i grandi racconti che vivono nella pazienza lunga che dà corpo all'anima, nella digressione che ne ramifica l'intelligenza; i grandi racconti che esplorano fisiologie mostruose, e hanno corpi mirabilmente patologici, fin nella lingua.
Proust, in un saggio pubblicato su Le Figaro poco tempo prima di morire difendeva Gustav Flaubert da chi lo accusava di sgrammaticare: il y a une beauté grammaticale qui n'a rien à voir avec la corretion.
E certo a Proust non mancava l'urgenza di sgrammaticare la lingua (passaggi dal singolare al plurale, dal concreto all'astratto: lo spettacolo dell'anima che diventa pensiero), o di distorcere la fisiologia dei personaggi: le famose vertebre di fronte della zia che tanto Gide ebbe a rimproverargli (e che costituirono, del resto, motivo di rifiuto presso Gallimard): errori da povero recluso gnostico, asmatico e blasfemo tutto intento a cercare la verità dentro un mondo di cui era il Dio: un caso patologico da porre all'attenzione di medici psichiatri, grammatici, maestri spirituali e lettori editoriali; un caso a cui si dovrebbe cercare di ridurre ogni scrittore voglia essere uno scrittore.
di Pier Paolo Di Mino
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