RECENSIONI
Ferdinand von Schirach
Il caso Collini
Longanesi, Pag. 166, Euro 14,00
Ferdinand von Schirach, avvocato penalista molto noto in Germania, nipote del capo della Gioventù Hitleriana Baldur von Schirach, deve la sua fama anche al suo primo libro, Un colpo di vento, raccolta di racconti, si pensi. Con questo romanzo riesce nell'impresa – niente di eccezionale, per carità, rientra nel puro calcolo delle probabilità – di farci trovare plausibile una frase dell'immarcescibile quanto sedicente critico letterario del Corsera, l'oscuro D'Orrico (cooptato nel giornale più venduto d'Italia esattamente come hanno fatto negli ultimi anni i politici con la loro sublime legge elettorale: selezionandoli all'incontrario, assumendo come condizione, fra le altre, imprescindibile, quella di non capire un cazzo), riesce Von Schirac a farci condividere una frase del tristo figuro: è vero che c'è qualcosa in Von Schirac che ricorda Durrenmatt. Intanto la sottrazione della storia che racconta al puro meccanismo del genere e la capacità (inesistente nel noir italiano di questi anni nonostante tutti i proclami strombazzati sull'argomento) di utilizzarlo piuttosto per una meditazione su destini umani sospesi sul crinale vertiginoso in cui il bene e il male si contendono la scena come in una battaglia ultima e definitiva.
In quel genere di contesa - si accomodino pure fuori i perbenisti del progressismo annacquato che ammorba la cultura italiana, massime nell'altro vacuo quotidiano che pretende di orientare l'inesistente opinione pubblica di un paese stramorto come il nostro – in quel genere di contesa dicevo non stupisce che la vendetta abbia un ruolo decisivo. E una ragione può averla anche mezzo secolo dopo – non sta ai moraleggiatori deciderlo, fatte salve le ragioni dei tribunali. Anche perché l'ultore – figura il cui fascino letterario è innegabile anche nella versione più coatta - non solo può saperne ben più del povero pubblico non pagante che apre bocca solo per partecipare alla recita del tifo (pro o contro) ma è in grado di regolarsi da solo anche dopo: quando se la vede fra sé e sé.
Questo insomma il succo narrativo del libro in questione: c'è Collini, cupo italiano che dopo mezzo secolo non ha dimenticato quello che ha visto in un giorno terrificante della seconda guerra mondiale, e c'è il vecchio e ricco industriale Hans Meyer, la vittima del suo regolamento di conti. Ancora, c'è un avvocato che non sa bene come difendere un uomo indifendibile, qual è il reo confesso Collini, e poi ancor di più dovrà penare per scoprire la vera natura dei fatti. Che non hanno intenzione di chiudersi per sempre se è vero che lo stesso Collini, il giorno prima di dare soddisfazione ai giudici, pur comprensivi rispetto al suo bisogno di vendetta, decideranno sul suo conto. Non diciamo qui qual è il fatto incriminato, né perché Collini scelga di finirla con sé stesso. Basti dire che ciò che è in gioco è qualcosa che supera la verità processuale, la dimensione formale della giustizia, e tocca temi alti quali la colpa, la memoria, le responsabilità pubbliche e private – provate a mettere di fronte coscienza individuale e nazismo e ve ne farete un'idea. Per ultimo, a parte qua e là qualche nota superflua nel dialoghi, lo stile asciutto, il tono soprattutto, calibrato a misura della storia, funzionano.
di Michele Lupo
In quel genere di contesa - si accomodino pure fuori i perbenisti del progressismo annacquato che ammorba la cultura italiana, massime nell'altro vacuo quotidiano che pretende di orientare l'inesistente opinione pubblica di un paese stramorto come il nostro – in quel genere di contesa dicevo non stupisce che la vendetta abbia un ruolo decisivo. E una ragione può averla anche mezzo secolo dopo – non sta ai moraleggiatori deciderlo, fatte salve le ragioni dei tribunali. Anche perché l'ultore – figura il cui fascino letterario è innegabile anche nella versione più coatta - non solo può saperne ben più del povero pubblico non pagante che apre bocca solo per partecipare alla recita del tifo (pro o contro) ma è in grado di regolarsi da solo anche dopo: quando se la vede fra sé e sé.
Questo insomma il succo narrativo del libro in questione: c'è Collini, cupo italiano che dopo mezzo secolo non ha dimenticato quello che ha visto in un giorno terrificante della seconda guerra mondiale, e c'è il vecchio e ricco industriale Hans Meyer, la vittima del suo regolamento di conti. Ancora, c'è un avvocato che non sa bene come difendere un uomo indifendibile, qual è il reo confesso Collini, e poi ancor di più dovrà penare per scoprire la vera natura dei fatti. Che non hanno intenzione di chiudersi per sempre se è vero che lo stesso Collini, il giorno prima di dare soddisfazione ai giudici, pur comprensivi rispetto al suo bisogno di vendetta, decideranno sul suo conto. Non diciamo qui qual è il fatto incriminato, né perché Collini scelga di finirla con sé stesso. Basti dire che ciò che è in gioco è qualcosa che supera la verità processuale, la dimensione formale della giustizia, e tocca temi alti quali la colpa, la memoria, le responsabilità pubbliche e private – provate a mettere di fronte coscienza individuale e nazismo e ve ne farete un'idea. Per ultimo, a parte qua e là qualche nota superflua nel dialoghi, lo stile asciutto, il tono soprattutto, calibrato a misura della storia, funzionano.
di Michele Lupo
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