RECENSIONI
Jean-Christophe Rufin
Il collare rosso
E/o, Traduzione di Alberto Bracci Testasecca, Pag. 160 Euro 16,00
Il fatto che l’Autore sia medico e diplomatico, fondatore di Medici senza frontiere, non aggiunge né toglie nulla ai meriti del libro. Il romanzo offre una deliziosa lettura, in toni che risultano tanto più efficaci quanto più sono sommessi e semplici. L’incipit è dei più classici: in una cittadina francese arriva un procuratore militare incaricato di interrogare un detenuto. La prima guerra mondiale è finita da poco, e l’ufficiale, che è arrivato al suo ultimo caso prima di ritirarsi dalla carriera, vorrebbe poter chiudere in bellezza, scagionando il soldato che, prima di commettere il reato di cui lo si accusa, si è distinto eroicamente al fronte. Si reca dunque da lui con la massima disponibilità a prendere in considerazione ogni possibile attenuante, ma con grande sorpresa si accorge che il detenuto tende ostinatamente a smantellare ogni forma di difesa.
Pensava a quel Morlac, al suo rifiuto di afferrare i salvagente che lui gli aveva tirato. Perché non aveva accettato di dire che era ubriaco? Perché non aveva dichiarato che nutriva una vera e propria passione per quel cane e che la cosa gli aveva fatto perdere momentaneamente la testa?
Un osso duro. E qual è il reato? Strategicamente, l’Autore lo svelerà solo all’ultimo, pur accennandovi con frequenti indizi. La collocazione storica è strettamente legata alla vita dei personaggi e al senso delle loro azioni. In quel momento alla guerra fra le nazioni si intersecava in modo trasversale un altro conflitto. Era la lotta di classe, l’opposizione tra i fanatici dell’amor patrio e i pacifisti che auspicavano la fratellanza dei popoli in nome dell’Internazionale socialista. Era la ribellione del proletariato operaio e contadino contro gli interessi guerrafondai del capitalismo. Dunque l’ufficiale inquisitore è costretto a misurarsi con una realtà in cui i valori di lealtà e di eroismo non sono più così univoci, e la coscienza deve fare i conti con una nuova complessità.
Poi, in trincea, aveva frequentato quegli stessi individui e qualche volta ne aveva preso le parti. A quel punto si era domandato se le loro sofferenze non fossero più degne di rispetto degli ideali in nome dei quali venivano inflitte.
Da subito Kaiser, il cane dell’indagato, appare in una posizione centrale, depositario di un mistero e della sua soluzione. Ma soprattutto incuriosisce il lettore con le sue avventure di guerra. E’ lui stesso un reduce, un soldato, perché non solo ha seguito il padrone al fronte, ma ha superato il semplice ruolo di mascotte del reggimento battendosi in prima linea. E ne riporta i segni.
A vederlo da vicino, l’animale faceva pena. Aveva proprio l’aspetto del vecchio guerriero. Varie cicatrici sulla schiena e sui fianchi testimoniavano ferite da pallottole o da schegge di bomba.(…) Una zampa posteriore era storta, e quando stava seduto doveva appoggiarla di sbieco per non cadere di lato.
Spesso succede, nei romanzi polizieschi, che si crei un particolare legame fra investigatore e investigato, tale da unirne in qualche modo i destini. Questa volta la cosa è un po’ diversa: il coinvolgimento dell’inquirente c’è, ma più che all’indagato tende a indirizzarsi al suo cane. Il romanzo ne guadagna un tocco di originalità, e il lettore uno spunto di commozione.
di Giovanna Repetto
Pensava a quel Morlac, al suo rifiuto di afferrare i salvagente che lui gli aveva tirato. Perché non aveva accettato di dire che era ubriaco? Perché non aveva dichiarato che nutriva una vera e propria passione per quel cane e che la cosa gli aveva fatto perdere momentaneamente la testa?
Un osso duro. E qual è il reato? Strategicamente, l’Autore lo svelerà solo all’ultimo, pur accennandovi con frequenti indizi. La collocazione storica è strettamente legata alla vita dei personaggi e al senso delle loro azioni. In quel momento alla guerra fra le nazioni si intersecava in modo trasversale un altro conflitto. Era la lotta di classe, l’opposizione tra i fanatici dell’amor patrio e i pacifisti che auspicavano la fratellanza dei popoli in nome dell’Internazionale socialista. Era la ribellione del proletariato operaio e contadino contro gli interessi guerrafondai del capitalismo. Dunque l’ufficiale inquisitore è costretto a misurarsi con una realtà in cui i valori di lealtà e di eroismo non sono più così univoci, e la coscienza deve fare i conti con una nuova complessità.
Poi, in trincea, aveva frequentato quegli stessi individui e qualche volta ne aveva preso le parti. A quel punto si era domandato se le loro sofferenze non fossero più degne di rispetto degli ideali in nome dei quali venivano inflitte.
Da subito Kaiser, il cane dell’indagato, appare in una posizione centrale, depositario di un mistero e della sua soluzione. Ma soprattutto incuriosisce il lettore con le sue avventure di guerra. E’ lui stesso un reduce, un soldato, perché non solo ha seguito il padrone al fronte, ma ha superato il semplice ruolo di mascotte del reggimento battendosi in prima linea. E ne riporta i segni.
A vederlo da vicino, l’animale faceva pena. Aveva proprio l’aspetto del vecchio guerriero. Varie cicatrici sulla schiena e sui fianchi testimoniavano ferite da pallottole o da schegge di bomba.(…) Una zampa posteriore era storta, e quando stava seduto doveva appoggiarla di sbieco per non cadere di lato.
Spesso succede, nei romanzi polizieschi, che si crei un particolare legame fra investigatore e investigato, tale da unirne in qualche modo i destini. Questa volta la cosa è un po’ diversa: il coinvolgimento dell’inquirente c’è, ma più che all’indagato tende a indirizzarsi al suo cane. Il romanzo ne guadagna un tocco di originalità, e il lettore uno spunto di commozione.
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