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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Ugo Facco De Lagarda

Il commissario Pepe

Giano editore, Pag. 144 Euro 14,00
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Perché Il commissario Pepe rivede la luce a più di quarant'anni dalla sua primiera uscita? La risposta è ovvia per chi conosce il romanzo e l'autore, meno per chi ignora sia l'uno che l'altro: perché è di strettissima attualità e perché, al di là di quello che solitamente si scrive sul testo in questione (antesignano del giallo italiano a tutti gli effetti, anche se viene poco dopo il pasticciaccio gaddiano) è scritto meravigliosamente bene.

Sull'attualità e sul perché Il commissario Pepe abbia solleticato prurigini infette, se non addirittura aonchi moralisti (dicesi aonco, lemma dialettale per indicare conato di vomito... perché poi il becero moralismo è per lo più impulso fisiologico) basta citare un episodio. Nel libro ad un certo punto il commissario riceve in una sua dependance (luogo ameno dove è solito incontrare la fidanzata Matilde, differente dalla casa dove vive assistito da una silenziosa domestica dal singolare nome di Uliana) due persone che vuole interrogare per un presunto giro di loschissimi incontri sessuali. Nel bel film che Ettore Scola diresse nel 1969, appunto tratto dal libro di De Lagarda, ed interpretato da un bravo Ugo Tognazzi, la stessa scena si svolge nell'appartamento degli interrogati. Morale? Che il regista romano, non sappiamo per quali motivi, ma forse sì, non ebbe il coraggio, considerando i tempi, di raffigurare personaggio di opera già altamente piccante in un contesto ancor più peccaminoso.

Perché se vogliamo dare un senso a Il commissario Pepe meglio sarebbe citare un anonimo estensore che su un sito di poesia, a proposito del caso Marrazzo, ha scritto: Va a finir che con vergogna, ci scopriamo qualunquisti, ammettendo mogi e tristi, che in quest'ambito di fogna, il più netto c'ha la rogna.

Vero, nel romanzo di De Lagarda il più pulito c'ha la rogna: in un ambiente provinciale che lo scrittore di origini veneziane (e su cui torneremo al più presto, perché è insopportabile il silenzio che è caduto su tutta la sua opera... e già solo per questo ringraziamo Giano Editore per aver riproposto, anche se nel marasma del 'noir' contemporaneo, il presente piccolo capolavoro) raffigura con pennellate impressioniste di rara efficacia: la città nella quale cinque miliardari e il Vescovo si contendono, tra sorrisi, piccoli dispetti e velate minacce, il potere; la città principalmente popolata da una orgogliosa piccola borghesia, e da una manovalanza diseredata che, per vestirsi bene, si nutre la sera di solo caffelatte.

Città mai indicata col nome (ma tutti hanno sempre sospettato Vicenza) ma 'sistemata' geograficamente dall'autore (piccolo capoluogo – emblematico centro di una corrente, amabile ipocrisia – situato, tra monte e pianura, al nord d'Italia, a trecento chilometri da Milano, a cento da Venezia) sembra rinverdire gli scandali e le depravazioni di una Peyton Place ancor più Sodoma e Gomorra (Ammissioni pressoché spontanee di almeno due dei cinque elementi presi a forza da V., danno per certo che il professore è giaciuto come femmina con buona parte della squadra sportiva).

Nel gustosissimo e spassoso, ma nello stesso tempo crepuscolare, romanzo di De Lagarda (quanto la coppia Fruttero e Lucentini, soprattutto quella de La donna della domenica e quella dell'ambientazione provincial-metropolitana de A che punto è la notte, deve allo scrittore veneziano? Direi tanto...) per fortuna non vi sono trans (non se ne può già più), perché il contesto storico ancora non li prevedeva anche se erano già 'nell'aria', ma vi è uno spaccato di corna, di scambismo, di droghe, di mignottume (questa sì sostanza contemporanea!) che di per sé poteva inquietare il perbenismo dell'epoca del boom economico e della cappa fumo di Londra del moralismo democristiano (ma fosse solo il marciume democristiano ad aver impedito certe scoperte letterarie: la gramsciana superiorità della cultura di sinistra ha sempre ignorato Ugo Facco De Lagarda. Ignoranza sulla quale ancora chiediamo lumi).

Insomma, senza raccontar troppo la trama, Il commissario pepe ci sembra, per via traverse, degno erede del Pasticciaccio, in una lingua forse non magmatica, come nel prodigioso incedere gaddiano, ma netta e polita nella sua essenza niente affatto conformista e ricca, per altro, di spunti che sarebbero stato decenni dopo origine di dispute non solo politiche: La Resistenza – in quanto decisivo fenomeno atto a testimoniare stabilmente l'unità del paese – non è stata ancora studiata, e considerata, in modo globale: sono state scritte, pensa, molte pagine encomiabili, ma quasi tutte peccano di ingenuo campanilismo, o partitico o regionalistico.

Era il 1964: Pavone e la sua Una guerra civile, saggio storico sulla moralità della Resistenza era ancora di là da venire.

Si diceva un piccolo capolavoro: accorrete prima di perderlo e prima che su De Lagarda ricada la cappa del menefreghismo. Mangiarsi le unghie poi è 'sport' per poveri di spirito.





di Alfredo Ronci


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