RECENSIONI
Giovanni Fragapane
Il destino degli strumenti musicali
Mobydick, Pag. 224 Euro 17,00
Avvince ma non convince. La scomparsa del giudice La Porta, magistrato siciliano incaricato di seguire un processo di mafia, stuzzica la curiosità del lettore in modo continuativo, senza mai lasciar calare l'interesse per la storia né il coinvolgimento empatico con i personaggi, ma perde per strada qualche occasione. Perno della storia, anche se grande assente nella prima parte del romanzo (scomparso, appunto!) è il personaggio del giudice, che rivela via via tratti inaspettati, a metà strada fra Raskolnikov e il fu Mattia Pascal, innescando clamorosi colpi di scena.
Ma non era sussiego, il suo, bensì una sorta di circospezione, un guardarsi intorno di continuo, come se ad ogni momento s'aspettasse di vedere qualcuno o qualcosa che non potesse controllare,una brutta sorpresa da dover prevedere ad ogni costo. E si guardava intorno con occhi vaganti, penetranti e sfuggenti al tempo stesso.
La vicenda del giudice fornisce anche un filo conduttore per una rivisitazione del 1970, con relativi fermenti rivoluzionari. Ci sono perfino 'quattro amici al bar che vorrebbero cambiare il mondo'. Il fatto che gli amici siano proprio quattro offre già uno spunto critico perché, se è vero che la raffinata ironia con cui l'Autore distribuisce i riferimenti nel testo è un aspetto gradevole, è anche vero che ne trapela un intento didascalico e paradigmatico un po' troppo scoperto. Inoltre i personaggi che ai giorni nostri conducono l'indagine – una maestra in pensione, una giornalista e un ispettore di polizia – formano una compagine perfetta e composta, sempre accordati fra loro, ognuno con la sua nota, proprio come gli strumenti musicali del titolo. Fanno tutto ciò che ci si aspetta senza sgarrare di un pelo: insomma un clima da arrivano i nostri un po' troppo disneyano. Gli elementi della storia si incastrano come tessere di un mosaico, e ognuna va a finire necessariamente al suo posto. Troppo. Specialmente in una struttura di una complessità ambiziosa, intessuta com'è di spunti politici, storici e sociali: l'impressione è che non siano sempre amalgamati in modo da svilupparne in pieno le implicazioni. E non tutto, alla resa dei conti finale, risulta convincente.
La narrazione è gradevole, garbata nel linguaggio e impeccabile nella qualità, e tutto ciò in modo omogeneo, senza sbavature né cadute di stile. Troppo anche questo, in un certo senso, perché dà al romanzo la morbidezza di una fiaba, quando in più ne ha anche la simmetria. Si veda per esempio l'interrogatorio che l'ispettore fa a due ex carcerati condannati dal giudice, che ovviamente sono i primi indagati per la sua scomparsa. Due interrogatori sovrapponibili, schematici, in sé dimostrativi con l'esattezza dei teoremi. E insomma, nella trattazione di temi che certamente hanno aspetti duri ci si aspetterebbe maggior durezza, una voce più agra, la stonatura di qualche grido strozzato in gola.
Gustoso è il riferimento narcisistico che l'Autore si concede quando, come Hitchcock, appare brevemente nel romanzo in qualità di comparsa.
Poco distante dall'osteria, seduto in posa borghesiana nell'ultimo scorcio di sole, c'era un omino con i capelli bianchi, che gli parve di riconoscere: - Buona sera – gli disse Leonardo avvicinandosi.
- Buona sera – disse l'omino.
- Scusi se la disturbo, ma credo di conoscerla...
- Anch'io ti conosco. Tu sei Nanà.
- Leonardo Alfieri - disse come per presentarsi; e aggiunse: - Lei come si chiama?
- Giovanni C punto Fragapane – disse l'omino alzando la testa.
Qui l'autore rivela l'essenza di un percorso autobiografico che lo ha portato a guardare, con i suoi occhi di 'omino' dai capelli bianchi, i luoghi e le passioni della sua gioventù.
di Giovanna Repetto
Ma non era sussiego, il suo, bensì una sorta di circospezione, un guardarsi intorno di continuo, come se ad ogni momento s'aspettasse di vedere qualcuno o qualcosa che non potesse controllare,una brutta sorpresa da dover prevedere ad ogni costo. E si guardava intorno con occhi vaganti, penetranti e sfuggenti al tempo stesso.
La vicenda del giudice fornisce anche un filo conduttore per una rivisitazione del 1970, con relativi fermenti rivoluzionari. Ci sono perfino 'quattro amici al bar che vorrebbero cambiare il mondo'. Il fatto che gli amici siano proprio quattro offre già uno spunto critico perché, se è vero che la raffinata ironia con cui l'Autore distribuisce i riferimenti nel testo è un aspetto gradevole, è anche vero che ne trapela un intento didascalico e paradigmatico un po' troppo scoperto. Inoltre i personaggi che ai giorni nostri conducono l'indagine – una maestra in pensione, una giornalista e un ispettore di polizia – formano una compagine perfetta e composta, sempre accordati fra loro, ognuno con la sua nota, proprio come gli strumenti musicali del titolo. Fanno tutto ciò che ci si aspetta senza sgarrare di un pelo: insomma un clima da arrivano i nostri un po' troppo disneyano. Gli elementi della storia si incastrano come tessere di un mosaico, e ognuna va a finire necessariamente al suo posto. Troppo. Specialmente in una struttura di una complessità ambiziosa, intessuta com'è di spunti politici, storici e sociali: l'impressione è che non siano sempre amalgamati in modo da svilupparne in pieno le implicazioni. E non tutto, alla resa dei conti finale, risulta convincente.
La narrazione è gradevole, garbata nel linguaggio e impeccabile nella qualità, e tutto ciò in modo omogeneo, senza sbavature né cadute di stile. Troppo anche questo, in un certo senso, perché dà al romanzo la morbidezza di una fiaba, quando in più ne ha anche la simmetria. Si veda per esempio l'interrogatorio che l'ispettore fa a due ex carcerati condannati dal giudice, che ovviamente sono i primi indagati per la sua scomparsa. Due interrogatori sovrapponibili, schematici, in sé dimostrativi con l'esattezza dei teoremi. E insomma, nella trattazione di temi che certamente hanno aspetti duri ci si aspetterebbe maggior durezza, una voce più agra, la stonatura di qualche grido strozzato in gola.
Gustoso è il riferimento narcisistico che l'Autore si concede quando, come Hitchcock, appare brevemente nel romanzo in qualità di comparsa.
Poco distante dall'osteria, seduto in posa borghesiana nell'ultimo scorcio di sole, c'era un omino con i capelli bianchi, che gli parve di riconoscere: - Buona sera – gli disse Leonardo avvicinandosi.
- Buona sera – disse l'omino.
- Scusi se la disturbo, ma credo di conoscerla...
- Anch'io ti conosco. Tu sei Nanà.
- Leonardo Alfieri - disse come per presentarsi; e aggiunse: - Lei come si chiama?
- Giovanni C punto Fragapane – disse l'omino alzando la testa.
Qui l'autore rivela l'essenza di un percorso autobiografico che lo ha portato a guardare, con i suoi occhi di 'omino' dai capelli bianchi, i luoghi e le passioni della sua gioventù.
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