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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

André Héléna

Il festival dei cadaveri

Aisara, Pag. 368 Euro 17,00
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André Héléna (1919 - 1972) è l'autore di un numero impressionante di romanzi (centinaia pare, porno compresi, e in un solo anno, il 1953, uno sproposito come diciotto) dei quali alcuni sono leggibili in italiano nelle traduzioni della casa editrice cagliaritana Aìsara. Ovvio che questa produzione massiccia faccia venire in mente Simenon, con il quale Héléna spartisce anche una consistente fetta di paternità del romanzo di genere francese – più noir che giallo, in questo caso, sebbene com'è noto lo stesso Simenon non si limitasse a quello.

Utilizzò molti pseudonimi e non ebbe grande fortuna, soprattutto critica. Se ne difese con un piccolo scritto messo a mo' di prefazione proprio in questo romanzo Il festival dei cadaveri, del quale si dice non sarebbe il migliore. Confessiamo di averlo letto solo ora, e se le parentele – seppure tutte esteriori - con Simenon hanno un senso, dovremmo sapere che in casi come questi un romanzo non basta per esprimere un giudizio sensato.

Torniamo al piccolo scritto dell'autore "In difesa del romanzo noir": il suo punto di vista è che la violenza e il male raccontati nei romanzi non sono responsabili del male e della violenza della società (vecchio e un po' autistico refrain di certa pseudocritica bigotta). Héléna insomma difende il noir, senza le complesse argomentazioni di un Derek Raymond per esempio, ma con la semplicità di un principio inoppugnabile: "Le cannonate e il crepitio rabbioso delle mitragliatrici, per non parlare de fragore delle bombe..." – scrive - è lo scenario in cui è cresciuto. Gli parrebbe stupido raccontare altro. Dentro c'è un'idea di letteratura che egli chiama noir (e in Italia continuano a farlo molto alla carlona decine di avventizi delle lettere), per cui si ritiene di dover vedere la realtà per quella che è. Come dargli torto?

Il festival dei cadaveri (titolo originale Le festival des macchabées 1951, traduzione di Giovanni Zucca), è ambientato durante l'occupazione nazista nella seconda guerra mondiale, periodo Vichy per intenderci. Che in quell'epoca, in quella situazione, se ne facciano di tutti i colori, va da sé. "La maggior parte della gente era fuori di testa". Il curioso paradosso dell'occupazione, ossia di una violenta presa del potere territoriale, è uno stato di guerra generale, di tutti contro tutti, nel quale saltando ogni schema valoriale la vita assume le sembianze di un carnevale – senza allegria, però.

C'è questo Maurice Debar, protagonista anche di Vita dura per le canaglie, il narratore di mezza età che cerca di sfangarsela in un paesaggio umano, storico, durissimo, in compagnia di un Colt e dell'amico Bams, appassionato maneggione di coltelli. Le danno e le prendono, spesso se le cercano, certo non subiscono. La violenza non è una scelta - l'avventura sì. Invece di difendersi come un Don Abbondio qualsiasi che in un mondo senza regole si nasconde, i due scendono nel rodeo e visto che non c'è nulla da perdere decidono di vendere cara la loro pellaccia. Divertendosi, nei modi cari a due gangsters, si capisce. Cercando di collaborare a modo loro al sabotaggio dell'occupazione tedesca. Vestendosi da agenti segreti, sempre senza un soldo, rischiando più volte di esser fatti fuori. Sono due balordi in costante rivolta verso un mondo non meno infame di loro; certo, mica proprio impegnati politicamente, ma sicuri di sapere cos'è una vita non supina. Non gli lasceresti le chiavi della tua auto, e non divideresti con loro nemmeno una birra perché non si sa mai, potrebbero ricordarsi di non avere un soldo in tasca. Ma se li guardi da lontano, senza correre rischi, quella loro libertà di camminare senza scopo se non quello di respirare la vita in quanto tale, non ti dispiace affatto.



di Michele Lupo


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