RECENSIONI
Nigel Barley
Il giovane antropologo
Edizioni Socrates , Pag. 224 Euro 12,50
Con buona pace di Malinowski e delle sue teorie professionali e seriose che tirano in ballo Freud, Nigel Barley ci fa vivere l'antropologia come un'esperienza a tutto tondo. Qui non si tirano somme culturali su un popolo lontano, ma si lascia che il lettore si formi la propria idea.
Scopo fondamentale de "Il giovane antropologo" è mostrare la ricerca sul campo, già teorizzata dal nume tutelare della etnografia di cui sopra (la fondamentale osservazione partecipante), come un percorso, un viaggio difficile che coinvolge un uomo, spaurito fra uomini culturalmente così diversi da sembrare quasi alieni, che al contempo possiede anche degli strumenti intellettivi per interpretare ciò che accade intorno a lui. Non sempre però questi baluardi culturali si rivelano utili. Di fronte all'ottusità di un dialogo impossibile, di fronte alle mille difficoltà materiali di una simile avventura, di fronte a un sistema di riferimento così fuori fuoco, non è sempre facile opporre le resistenze dello studio sul campo. Il giovane Barley, come un novello Holden smarrito in Africa, deve fronteggiare tante avversità quanti sono i giorni di permanenza in un territorio così impervio e a volte inospitale.
Le grane iniziano immediatamente con la burocrazia africana, un groviglio inestricabile di norme inutili osservate con una scrupolosità grottesca. I documenti da far firmare, i visti che devono essere apposti su ogni carta, i nulla osta da richiedere sommergono subito lo studioso. Come se non bastasse le banche sono assolutamente incapaci di restituire il denaro una volta depositato. Qualche aiuto arriva dai missionari, di solito le bestie nere dell'antropologo, qui autentici angeli salvatori.
Una volta sulle terre Dowayo, un'oscura popolazione montana, considerata dagli stessi vicini africani gretta e arretrata, le difficoltà non fanno che aumentare. La lingua è tonale, il che significa che una minima variazione nell'intonazione di una frase la trasforma immediatamente in un nonsense esilarante per i nativi e assurdamente imbarazzante per il malcapitato. L'interprete è un personaggio macchiettistico che spesso ha a cuore solo il proprio egotismo e che si pavoneggia appena può. Le conseguenze di una dieta esclusivamente a base di miglio, di cure dentistiche inappropriate, di incidenti stradali su percorsi sconnessi, hanno una risonanza per mesi sul delicato inglese. Ma comunque Barley non si scoraggia. Continua a osservare attento, ad aggirare incomprensioni, a raccogliere dati e appunti. Alla fine crede quasi di aver agguantato una piccola parte di verità Dowayo.
Ma illuminante si rivela una conversazione telefonica che l'antropologo ha con un collega al suo ritorno: "Ah, sei tornato?" "Si." "Hai riportato con te degli appunti che non hanno né capo né coda e ti sei dimenticato di porre le domande più importanti?" "Si." "Quando riparti?".
Questo stralcio la dice lunga sulla febbre che prende questi ricercatori: ben più temibile di qualsiasi malaria.
E Nigel Barley coinvolge anche noi in questa avventura febbricitante, senza tralasciare nessun aspetto, nemmeno il più sgradevole, di una simile difficile esperienza. E ci si ritrova a macinare pagine con ingordigia per scoprire cosa altro ancora può accadere al confine con la Nigeria, a 45 gradi all'ombra, in una capanna invasa dagli scorpioni.
di Enrica Murru
Scopo fondamentale de "Il giovane antropologo" è mostrare la ricerca sul campo, già teorizzata dal nume tutelare della etnografia di cui sopra (la fondamentale osservazione partecipante), come un percorso, un viaggio difficile che coinvolge un uomo, spaurito fra uomini culturalmente così diversi da sembrare quasi alieni, che al contempo possiede anche degli strumenti intellettivi per interpretare ciò che accade intorno a lui. Non sempre però questi baluardi culturali si rivelano utili. Di fronte all'ottusità di un dialogo impossibile, di fronte alle mille difficoltà materiali di una simile avventura, di fronte a un sistema di riferimento così fuori fuoco, non è sempre facile opporre le resistenze dello studio sul campo. Il giovane Barley, come un novello Holden smarrito in Africa, deve fronteggiare tante avversità quanti sono i giorni di permanenza in un territorio così impervio e a volte inospitale.
Le grane iniziano immediatamente con la burocrazia africana, un groviglio inestricabile di norme inutili osservate con una scrupolosità grottesca. I documenti da far firmare, i visti che devono essere apposti su ogni carta, i nulla osta da richiedere sommergono subito lo studioso. Come se non bastasse le banche sono assolutamente incapaci di restituire il denaro una volta depositato. Qualche aiuto arriva dai missionari, di solito le bestie nere dell'antropologo, qui autentici angeli salvatori.
Una volta sulle terre Dowayo, un'oscura popolazione montana, considerata dagli stessi vicini africani gretta e arretrata, le difficoltà non fanno che aumentare. La lingua è tonale, il che significa che una minima variazione nell'intonazione di una frase la trasforma immediatamente in un nonsense esilarante per i nativi e assurdamente imbarazzante per il malcapitato. L'interprete è un personaggio macchiettistico che spesso ha a cuore solo il proprio egotismo e che si pavoneggia appena può. Le conseguenze di una dieta esclusivamente a base di miglio, di cure dentistiche inappropriate, di incidenti stradali su percorsi sconnessi, hanno una risonanza per mesi sul delicato inglese. Ma comunque Barley non si scoraggia. Continua a osservare attento, ad aggirare incomprensioni, a raccogliere dati e appunti. Alla fine crede quasi di aver agguantato una piccola parte di verità Dowayo.
Ma illuminante si rivela una conversazione telefonica che l'antropologo ha con un collega al suo ritorno: "Ah, sei tornato?" "Si." "Hai riportato con te degli appunti che non hanno né capo né coda e ti sei dimenticato di porre le domande più importanti?" "Si." "Quando riparti?".
Questo stralcio la dice lunga sulla febbre che prende questi ricercatori: ben più temibile di qualsiasi malaria.
E Nigel Barley coinvolge anche noi in questa avventura febbricitante, senza tralasciare nessun aspetto, nemmeno il più sgradevole, di una simile difficile esperienza. E ci si ritrova a macinare pagine con ingordigia per scoprire cosa altro ancora può accadere al confine con la Nigeria, a 45 gradi all'ombra, in una capanna invasa dagli scorpioni.
di Enrica Murru
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