RECENSIONI
Monique Comparon
Il peso delle ombre
Palomar, Pag. 168 Euro 13,00
In questo sedicente romanzo - poiché zavorrato di corposi interventi didascalici -, di materiale letterario ce ne sarebbe parecchio. L'ambiente è una valle dell'Alto Adige, il tempo ritrovato nella maturità è l'infanzia e la giovinezza trascorse nel prima, attraverso e immediatamente dopo la seconda guerra mondiale - e c'è pure un finale "esotico", un breve confronto tra l'immigrazione bianca e missionaria in Australia, e gli uomini delle origini e del bush, che, pure, non redime dal vincolo con la vallata e le prische virtù delle sue genti ladine, germaniche, italiane.
A fianco del contenuto, nelle pagine della Comparon, un alto tasso di forma letteraria: devota al monolinguismo, l'Autrice scrive in una lingua nella quale evidentemente si sente a disagio, e dunque s'ipercorregge adottando la strategia di seguire la grammatica, abolendo la pratica. Ciò, e un discreto talento letterario - nel senso più consueto del termine - in genere la fa eccellere nelle descrizioni: "Il vagone era quasi vuoto. I pochi occupati, l'aria indifferente, oscillavano come burattini. A una stazioncina locale salì, e si sedettero (sic) proprio di fronte a me, una coppia in età matura che sembrava essersi sottratta provvisoriamente a una manifestazione folcloristica. Curiosamente impettiti, lei dal corsetto, lui dal gilet, riccamente adornati, scrutavano il mutevole paesaggio uno in direzione opposta dell'altro, come se esibissero un consolidato patto di vigilanza". (p. 57) "La ragazza allungò il passo allontanadosi verso l'altra uscita. Passando sotto i meli, dove la luce si colorava del rosa e del bianco dei primi boccioli, la sua pelle diafana risplendeva a conferma della sua bellezza". (p. 125)
Altro punto di forza, dovuto all'elezione linguistica, la Comparon se lo dà consistente in una sua ben meditata (condivisibile o meno) metafisica: ""Come si può vincere combattendo nel campo dell'avversario?" (...) "Forse quando l'avversario vince!". "No, perché rimane avversario. Anzi, lo diventa sempre di più""Allora, forse quando perde?" "Nemmeno, perché perde (sic) assieme a lui". (p. 93) "Solo una lunga riflessione può rievocare la densità di un periodo altrimenti limitato nel tempo". (p.95) Su quest'aspetto di racconto morale, di "parità" che situa la narrazione autenticamente popolare - e gli echi di essa còlti dai colti - fra la tragedia greca e il proverbio drammatico, torneremo; vorrei concludere invece la mia disamina senza pretese, amatoriale, delle forme del testo, rilevando l'impianto corale della narrazione: i personaggi non si dettagliano, ma si stagliano ognuno come temporanea voce d'un tutto, come quell'eco che l'Autrice inscena, in cui non fa in tempo a spegnersi una risonanza che subito si ripresenta il suo armonico. Sotto questo madrigale, a fare da bordone c'è un'assiologia che si rifa in parte al cattolicesimo della pietà (p. 81) seppure con un accento sulla responsabilità (pp. 46-7) che non gli è usuale; e a una complessa struttura valoriale il cui perno e sunto è l'"onore" (passim), e le cui implicazioni vanno colte nell'intero dettato dell'Autrice - una tra queste: la condanna dell'esposizione del cadavere di Mussolini a piazzale Loreto, che le fa scrivere: "l'orgoglio della Resistenza si tingeva d'infamia". (p. 138) Una frase che, pur restando inaccettabile in ogni sua implicatura, viene - il libro lo testimonia - da una visione del mondo in cui queste parole hanno tutt'altro senso e profondità del lurido becerume di chi propone leggi che sanciscono la viltà di sparare nella schiena a qualcuno (un ladro, sia pure), e poi assolve il diretto responsabile della rovina di un'intera nazione. E torniamo al nodo di Gordio morale sotteso alla scrittura: più che nel fascismo, nel nazismo la comunità militante racchiusa nell' esercito, era dotata "di consacrate virtù: la fierezza e volontà di riscossa, il patriottismo, il sacrificio al dovere, la fedeltà alla parola data, la disciplina, l'ordine, la tenacia, il coraggio... tutte virtù, purtroppo, dedicate ormai all'egemonia del male". (pp. 98-9) La virtù (concesso che in tali accezioni queste doti siano pregi) non basta a farsi scudo del vizio. Anzi, è la radice di quello più assurdo, il suo terreno fertile. Non banale ammissione per la Nostra, quasi una chiamata di còrreo per i conclamati "valori" identitari e valligiani - "modernità" che s'insinuerebbe com'un alcale disgregante, se la Comparon la facesse propria, riconoscendola e individuandola.
Insomma, gli ingredienti ci sarebbero tutti per fare di questo un romanzo riuscito: e invece, manca alla scrittrice proprio l'avvertimento dello stile "romanzo". Sia ben chiaro: abbiamo - in Musil, in Volponi, i quali, oltr'ogni hit-parade-a-mach-due di merito con la Nostra, ci paiono a Lei secondi cugini - esempi d'infedeltà allo schema. Però, in loro ce n'è una coscienza, che nell'Autrice manca, e tarla l'intera costruzione: come peraltro non la assiste la consapevolezza d'un elaborato soddisfacente. Per la Comparon dunque si può ripetere la vecchia barzelletta: "se attraversi la strada, bene. Se non attraversi la strada, bene. Se la attraversi a metà, prima o poi un camion arriva".
di Vera Barilla
A fianco del contenuto, nelle pagine della Comparon, un alto tasso di forma letteraria: devota al monolinguismo, l'Autrice scrive in una lingua nella quale evidentemente si sente a disagio, e dunque s'ipercorregge adottando la strategia di seguire la grammatica, abolendo la pratica. Ciò, e un discreto talento letterario - nel senso più consueto del termine - in genere la fa eccellere nelle descrizioni: "Il vagone era quasi vuoto. I pochi occupati, l'aria indifferente, oscillavano come burattini. A una stazioncina locale salì, e si sedettero (sic) proprio di fronte a me, una coppia in età matura che sembrava essersi sottratta provvisoriamente a una manifestazione folcloristica. Curiosamente impettiti, lei dal corsetto, lui dal gilet, riccamente adornati, scrutavano il mutevole paesaggio uno in direzione opposta dell'altro, come se esibissero un consolidato patto di vigilanza". (p. 57) "La ragazza allungò il passo allontanadosi verso l'altra uscita. Passando sotto i meli, dove la luce si colorava del rosa e del bianco dei primi boccioli, la sua pelle diafana risplendeva a conferma della sua bellezza". (p. 125)
Altro punto di forza, dovuto all'elezione linguistica, la Comparon se lo dà consistente in una sua ben meditata (condivisibile o meno) metafisica: ""Come si può vincere combattendo nel campo dell'avversario?" (...) "Forse quando l'avversario vince!". "No, perché rimane avversario. Anzi, lo diventa sempre di più""Allora, forse quando perde?" "Nemmeno, perché perde (sic) assieme a lui". (p. 93) "Solo una lunga riflessione può rievocare la densità di un periodo altrimenti limitato nel tempo". (p.95) Su quest'aspetto di racconto morale, di "parità" che situa la narrazione autenticamente popolare - e gli echi di essa còlti dai colti - fra la tragedia greca e il proverbio drammatico, torneremo; vorrei concludere invece la mia disamina senza pretese, amatoriale, delle forme del testo, rilevando l'impianto corale della narrazione: i personaggi non si dettagliano, ma si stagliano ognuno come temporanea voce d'un tutto, come quell'eco che l'Autrice inscena, in cui non fa in tempo a spegnersi una risonanza che subito si ripresenta il suo armonico. Sotto questo madrigale, a fare da bordone c'è un'assiologia che si rifa in parte al cattolicesimo della pietà (p. 81) seppure con un accento sulla responsabilità (pp. 46-7) che non gli è usuale; e a una complessa struttura valoriale il cui perno e sunto è l'"onore" (passim), e le cui implicazioni vanno colte nell'intero dettato dell'Autrice - una tra queste: la condanna dell'esposizione del cadavere di Mussolini a piazzale Loreto, che le fa scrivere: "l'orgoglio della Resistenza si tingeva d'infamia". (p. 138) Una frase che, pur restando inaccettabile in ogni sua implicatura, viene - il libro lo testimonia - da una visione del mondo in cui queste parole hanno tutt'altro senso e profondità del lurido becerume di chi propone leggi che sanciscono la viltà di sparare nella schiena a qualcuno (un ladro, sia pure), e poi assolve il diretto responsabile della rovina di un'intera nazione. E torniamo al nodo di Gordio morale sotteso alla scrittura: più che nel fascismo, nel nazismo la comunità militante racchiusa nell' esercito, era dotata "di consacrate virtù: la fierezza e volontà di riscossa, il patriottismo, il sacrificio al dovere, la fedeltà alla parola data, la disciplina, l'ordine, la tenacia, il coraggio... tutte virtù, purtroppo, dedicate ormai all'egemonia del male". (pp. 98-9) La virtù (concesso che in tali accezioni queste doti siano pregi) non basta a farsi scudo del vizio. Anzi, è la radice di quello più assurdo, il suo terreno fertile. Non banale ammissione per la Nostra, quasi una chiamata di còrreo per i conclamati "valori" identitari e valligiani - "modernità" che s'insinuerebbe com'un alcale disgregante, se la Comparon la facesse propria, riconoscendola e individuandola.
Insomma, gli ingredienti ci sarebbero tutti per fare di questo un romanzo riuscito: e invece, manca alla scrittrice proprio l'avvertimento dello stile "romanzo". Sia ben chiaro: abbiamo - in Musil, in Volponi, i quali, oltr'ogni hit-parade-a-mach-due di merito con la Nostra, ci paiono a Lei secondi cugini - esempi d'infedeltà allo schema. Però, in loro ce n'è una coscienza, che nell'Autrice manca, e tarla l'intera costruzione: come peraltro non la assiste la consapevolezza d'un elaborato soddisfacente. Per la Comparon dunque si può ripetere la vecchia barzelletta: "se attraversi la strada, bene. Se non attraversi la strada, bene. Se la attraversi a metà, prima o poi un camion arriva".
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