RECENSIONI
Jennifer Egan
Il tempo è un bastardo
Minimum fax, Pag. 391 Euro 18,00
Qualcuno dice in giro che noi orchi saremmo misogini, che parliamo male delle scrittrici a prescindere – forse addirittura maschilisti. Poiché non bisogna scendere sul terreno degli imbecilli se non replicando con un ceffone (così avrebbe fatto un monaco buddista con La Russa, Gasparri, Lupi: altro che "Ballarò"), e alle eventuali signore sospettose con una carezza compassionevole, andiamo al sodo e diciamola in fretta: le grandi scrittrici latitano (in Italia son poche anche le brave), ma quando ne troviamo una siamo i primi festeggiare. Il caso di Jennifer Egan, vincitrice del Pulitzer Prize 2011, che ha firmato un romanzo non proprio romanzo, Il tempo è un bastardo, minimum fax, di sagace scrittura, non esente da una certa dispersività narrativa, di notevole consapevolezza letteraria (Proust è uno dei suoi autori di riferimento), che intreccia storie senza un piano ordinato nemmeno nelle tradizionali varianti di analessi e prolessi.
Ogni capitolo è persino leggibile senza legami cogenti con gli altri, sebbene nella cornice complessiva le storie acquistino un di più di senso – ché non sono nemmeno racconti in senso stretto. Se la Egan guarda in alto, alle tradizioni letterarie più nobili, non le ripete nostalgicamente come un banale epigono ma prova a rivitalizzarle attraverso strutture, sostiene, mutuate da film e serial televisivi brillanti (a suo dire, specie "I Sopranos", nonché "Pulp Fiction": la cosa curiosa è che a suo tempo Tarantino disse chiaramente che senza la letteratura, senza le strutture del romanzo lui non avrebbe mai potuto fare un film come quello: qualcosa non torna no?)
A ogni modo, il tempo della storia non ha più nulla della linearità cui siamo abituati, ma si dispiega su durate amplissime in cui si giocano non tanto destini totali con un inizio, uno svolgimento e un finale, quanto frammenti cronologicamente "impazziti", quasi reversibili nella percezione del lettore, come a svolgere tecnicamente l'idea di io plurimi e successivi impliciti nella Recherche del grande Marcel. Se l'ordine del discorso è filosoficamente saltato assieme all'unitarietà del soggetto, i personaggi della Egan vivono dentro "puntate" che non sono irrelate ma certo ricucibili – come lo sono le loro vite – solo attraverso connettivi di esperienze la cui serialità di causa-effetto è variamente pregiudicata: di non deterministica ricostruzione. In questo senso Il tempo è un bastardo è assolutamente moderno: un esperimento non risolto nel compiacimento della forma, ma tenuto dentro una narrabilità comunicativa, persino divertente in molti tratti, con qualche eccesso digressivo e una proliferazione dei punti di vista Il tutto complicato dalle narrazioni che gli stessi protagonisti fanno della loro vita: a uno psicoanalista per esempio. Dagli anni settanta di San Francisco al presente e appena futuribile di New York, dal vinile al digitale e all'immateriale, dai freak ai social network, si muove un'umanità esemplare proprio perché decentrata, nevrotica, a suo modo inventiva – e inventiva certo lo è l'autrice, brava a rivelare in pochi dettagli idiosincrasie e svolte esistenziali, magari improbabili, come sono sempre più le nostre vite. Intorno ai personaggi principali, Bennie e Sasha, il primo un ex punk ora discografico di successo, inutile dire bizzarro assai, la seconda sua assistente, una cleptomane senza speranza, si agitano le vite sgangherate di musicisti, produttori, attrici, flippati impegnati in reality show o a scopare da mane a sera. E la figlia di Sasha, Alison, l'ultima che prova a capirci qualcosa nel caos imperante, con un saggetto in power point, composto da slide con frecce e grafici – tal quali quelli riportati, si fa per dire, alla fine del romanzo, in una settantina di pagine che qualche mese fa fecero scrivere a giornalisti frettolosi e al solito in cerca di miracoli che il Pulitzer se l'era aggiudicato "un romanzo scritto in power point": al netto della sovrana sciocchezza, un esempio di come la letteratura non abbia ancora smesso di inventarsi. Ossia di dimostrare che se qualcuno è morto, sono i suoi distratti becchini.
di Michele Lupo
Ogni capitolo è persino leggibile senza legami cogenti con gli altri, sebbene nella cornice complessiva le storie acquistino un di più di senso – ché non sono nemmeno racconti in senso stretto. Se la Egan guarda in alto, alle tradizioni letterarie più nobili, non le ripete nostalgicamente come un banale epigono ma prova a rivitalizzarle attraverso strutture, sostiene, mutuate da film e serial televisivi brillanti (a suo dire, specie "I Sopranos", nonché "Pulp Fiction": la cosa curiosa è che a suo tempo Tarantino disse chiaramente che senza la letteratura, senza le strutture del romanzo lui non avrebbe mai potuto fare un film come quello: qualcosa non torna no?)
A ogni modo, il tempo della storia non ha più nulla della linearità cui siamo abituati, ma si dispiega su durate amplissime in cui si giocano non tanto destini totali con un inizio, uno svolgimento e un finale, quanto frammenti cronologicamente "impazziti", quasi reversibili nella percezione del lettore, come a svolgere tecnicamente l'idea di io plurimi e successivi impliciti nella Recherche del grande Marcel. Se l'ordine del discorso è filosoficamente saltato assieme all'unitarietà del soggetto, i personaggi della Egan vivono dentro "puntate" che non sono irrelate ma certo ricucibili – come lo sono le loro vite – solo attraverso connettivi di esperienze la cui serialità di causa-effetto è variamente pregiudicata: di non deterministica ricostruzione. In questo senso Il tempo è un bastardo è assolutamente moderno: un esperimento non risolto nel compiacimento della forma, ma tenuto dentro una narrabilità comunicativa, persino divertente in molti tratti, con qualche eccesso digressivo e una proliferazione dei punti di vista Il tutto complicato dalle narrazioni che gli stessi protagonisti fanno della loro vita: a uno psicoanalista per esempio. Dagli anni settanta di San Francisco al presente e appena futuribile di New York, dal vinile al digitale e all'immateriale, dai freak ai social network, si muove un'umanità esemplare proprio perché decentrata, nevrotica, a suo modo inventiva – e inventiva certo lo è l'autrice, brava a rivelare in pochi dettagli idiosincrasie e svolte esistenziali, magari improbabili, come sono sempre più le nostre vite. Intorno ai personaggi principali, Bennie e Sasha, il primo un ex punk ora discografico di successo, inutile dire bizzarro assai, la seconda sua assistente, una cleptomane senza speranza, si agitano le vite sgangherate di musicisti, produttori, attrici, flippati impegnati in reality show o a scopare da mane a sera. E la figlia di Sasha, Alison, l'ultima che prova a capirci qualcosa nel caos imperante, con un saggetto in power point, composto da slide con frecce e grafici – tal quali quelli riportati, si fa per dire, alla fine del romanzo, in una settantina di pagine che qualche mese fa fecero scrivere a giornalisti frettolosi e al solito in cerca di miracoli che il Pulitzer se l'era aggiudicato "un romanzo scritto in power point": al netto della sovrana sciocchezza, un esempio di come la letteratura non abbia ancora smesso di inventarsi. Ossia di dimostrare che se qualcuno è morto, sono i suoi distratti becchini.
di Michele Lupo
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