RECENSIONI
Russell Hoban
Il topo e suo figlio
Adelphi, Gli Adelphi , Pag. 175 Euro 10,00
Adelphi ristampa questo libro di Russell Hoban del 1967, per niente invecchiato.
E che non poteva (e che non potrà) invecchiare lo si capisce fin dall'esergo, alcuni versi di W. H. Auden in cui si scongiura la decadenza del senso del pericolo (the sense of danger must not desappear): un invito all'avventura e al salto. Insomma, fa voti che ti sia lunga la via, aggiungerebbe Kavafis sorseggiando tè in un locale, ora scomparso, di Alessandria d'Egitto.
Impossibile invecchiare a queste storie di buona scocca, con gente, non importa chi, buttata allo sbaraglio, da non importa cosa, ad affrontare avventure per conquistare una casa: e ha ragione Borges che uno, anche a volersi sbattere, gira che ti rigira, a metafore sulla vita ti ritrovi sempre questa del Cristo buono e dolente o quella, come se fosse il caso contrario, di Odisseo, il bugiardo, lo strafottente.
Quanto alla gente buttata allo sbaraglio, Hoban decide appunto che, a mezza via tra Cristo e Ulisse, è la volta di parlare di un topo meccanico e suo figlio, giocattoli di latta che verranno gettati nella mischia non da un dio omerico coi suoi umori e le sue mire, né da un qualche fato o dio necessitante, ma addirittura da un lurido vagabondo che apre e chiude la storia con tutta l'aria di essere una divinità gnostica, nascosta e dimentica di sé, un Caso che, però, tutto il contrario che indifferente alle sue creature non cerca altro, nello scompiglio, che la loro felicità.
E dà il brivido constatare come, con una costanza smisurata (nel senso di fuori metro; discordante), in questa storia bislacca, acida, popolata da personaggi striscianti, pangasi che dimorano la mota remotissima della più oscura regione dell'anima, ci aspetti ad ogni angolo un luminoso senso della vita: certo una luce dal tono artefatto, sempre un lucore di sbalzo sulla tenebra.
Infatti, iniziamo con la tenebra invernale di un negozio chiuso, dove i giocattoli sono in attesa di essere venduti, in tribolata fibrillazione sul chi siamo e dove andremo?, con contraltare di lumi alla vetrina per richiamare i clienti. Il topino fa in tempo, in questo chiaroscuro, a vedere il proprio destino: vuole che l'elefantessa giocattolo che fa bella mostra di sé sugli scaffali alti, diventi sua madre. Il topo e suo figlio vengono venduti: ma non il sogno, pardon, destino. Ancora buio e luci: è natale. I regali vengono scartati, i giocattoli usati, finché, in una notte, ovvio, scura, illuminata dai fuochi fatui e dai vapori mefitici, il vagabondo di cui sopra, trova il topo e il figlio buttati nella pattumiera: li porta in un mondezzaio, li carica e fa partire l'avventura che culminerà nel completamento del sogno: il topo padre e l'elefantessa si sposeranno e il topino avrà una madre; ed una casa di plastica tutta illuminata.
L'avventura è: ranocchi, veggenti cialtroni, alle quale esce per sbaglio e controvoglia la verità; topi malvagissimi che, però, non potranno fare a meno di diventare buoni; solitari essere unicellulari nati per fondare società socievoli; filosofi talmente perfetti da essere completamente inutili affinché, giro di boa, in questa esaltazione dell'inutile e del nulla si possa scoprire che questo nulla è qualcosa e il baratro è una porticina aperta su di noi: filosofi, quindi, utilissimi; scienziati puri che, qui non ci si maschera dietro un dito, fanno cose pratiche; teatranti talmente sperimentali ed astratti che finiscono per mettere in scena, concretamente, pericolosamente, la vita.
In questa storia si respira l'aria di Alice, ma senza quella pulizia algebrica che stuzzica lo spirito; c'è un non so che della fiaba morale (a tratti ricorda il piccolo capolavoro performance di Bacchelli, Lo sa il tonno) ma senza che si possa trovare nessuna morale: un'aria strana, vagamente morbosa, che è la peculiarità e anche il limite di questo romanzo sempre tentato dalla farragine; che sempre la evita come per miracolo.
Se siete pronti a farvi assalire da un certo turbamento e non temete troppo la confusione, allora, leggete questo libro; e siate felici, direbbe il vagabondo.
di Pier Paolo Di Mino
E che non poteva (e che non potrà) invecchiare lo si capisce fin dall'esergo, alcuni versi di W. H. Auden in cui si scongiura la decadenza del senso del pericolo (the sense of danger must not desappear): un invito all'avventura e al salto. Insomma, fa voti che ti sia lunga la via, aggiungerebbe Kavafis sorseggiando tè in un locale, ora scomparso, di Alessandria d'Egitto.
Impossibile invecchiare a queste storie di buona scocca, con gente, non importa chi, buttata allo sbaraglio, da non importa cosa, ad affrontare avventure per conquistare una casa: e ha ragione Borges che uno, anche a volersi sbattere, gira che ti rigira, a metafore sulla vita ti ritrovi sempre questa del Cristo buono e dolente o quella, come se fosse il caso contrario, di Odisseo, il bugiardo, lo strafottente.
Quanto alla gente buttata allo sbaraglio, Hoban decide appunto che, a mezza via tra Cristo e Ulisse, è la volta di parlare di un topo meccanico e suo figlio, giocattoli di latta che verranno gettati nella mischia non da un dio omerico coi suoi umori e le sue mire, né da un qualche fato o dio necessitante, ma addirittura da un lurido vagabondo che apre e chiude la storia con tutta l'aria di essere una divinità gnostica, nascosta e dimentica di sé, un Caso che, però, tutto il contrario che indifferente alle sue creature non cerca altro, nello scompiglio, che la loro felicità.
E dà il brivido constatare come, con una costanza smisurata (nel senso di fuori metro; discordante), in questa storia bislacca, acida, popolata da personaggi striscianti, pangasi che dimorano la mota remotissima della più oscura regione dell'anima, ci aspetti ad ogni angolo un luminoso senso della vita: certo una luce dal tono artefatto, sempre un lucore di sbalzo sulla tenebra.
Infatti, iniziamo con la tenebra invernale di un negozio chiuso, dove i giocattoli sono in attesa di essere venduti, in tribolata fibrillazione sul chi siamo e dove andremo?, con contraltare di lumi alla vetrina per richiamare i clienti. Il topino fa in tempo, in questo chiaroscuro, a vedere il proprio destino: vuole che l'elefantessa giocattolo che fa bella mostra di sé sugli scaffali alti, diventi sua madre. Il topo e suo figlio vengono venduti: ma non il sogno, pardon, destino. Ancora buio e luci: è natale. I regali vengono scartati, i giocattoli usati, finché, in una notte, ovvio, scura, illuminata dai fuochi fatui e dai vapori mefitici, il vagabondo di cui sopra, trova il topo e il figlio buttati nella pattumiera: li porta in un mondezzaio, li carica e fa partire l'avventura che culminerà nel completamento del sogno: il topo padre e l'elefantessa si sposeranno e il topino avrà una madre; ed una casa di plastica tutta illuminata.
L'avventura è: ranocchi, veggenti cialtroni, alle quale esce per sbaglio e controvoglia la verità; topi malvagissimi che, però, non potranno fare a meno di diventare buoni; solitari essere unicellulari nati per fondare società socievoli; filosofi talmente perfetti da essere completamente inutili affinché, giro di boa, in questa esaltazione dell'inutile e del nulla si possa scoprire che questo nulla è qualcosa e il baratro è una porticina aperta su di noi: filosofi, quindi, utilissimi; scienziati puri che, qui non ci si maschera dietro un dito, fanno cose pratiche; teatranti talmente sperimentali ed astratti che finiscono per mettere in scena, concretamente, pericolosamente, la vita.
In questa storia si respira l'aria di Alice, ma senza quella pulizia algebrica che stuzzica lo spirito; c'è un non so che della fiaba morale (a tratti ricorda il piccolo capolavoro performance di Bacchelli, Lo sa il tonno) ma senza che si possa trovare nessuna morale: un'aria strana, vagamente morbosa, che è la peculiarità e anche il limite di questo romanzo sempre tentato dalla farragine; che sempre la evita come per miracolo.
Se siete pronti a farvi assalire da un certo turbamento e non temete troppo la confusione, allora, leggete questo libro; e siate felici, direbbe il vagabondo.
di Pier Paolo Di Mino
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