RECENSIONI
Attilio Brilli
Il viaggio in Italia
il Mulino, Pag. 473 Euro 25,00
Ci si può stare. Dico, pensando al numero delle pagine e a certi libretti smilzi e malaticci venduti al prezzo della casa del Nespolo, non è tanto costoso, po' poi. Oltretutto, è lavoro che resterà, e vivace e istruttivo, che scorre pagina dopo pagina, e fa subito prigionieri dell'erudita trama che bellamente ricostruisce una pratica viva sino a ieri nelle classi ricche e colte oltramontane: il Grand Tour, il viaggio d'istruzione e diletto nei paesi-reliquia della civiltà occidentale, massime in Italia, giardino e conservatorìa d'Europa.
Ed è proprio un viaggio la lettura del lavoro di Brilli, un viaggio della mente attraverso consuetudini, ambienti e luoghi, difficoltà e meraviglie, che la tecnica dei trasporti da un verso, e quella delle comunicazioni dall'altro, hanno attutito, smussato, annacquato. Non c'è più il tormento, è vero, delle strade fangose, delle carrozze scomode e graveolenti, delle osterie dai giacigli animati da pulci e zecche, intrisi di lue e tbc, dei pericoli (esagerati) di ratto o furto: ma anche l'estasi (come, per la Signoret, la nostalgia) non è più quella di una volta - a meno d'inventarsi, su questo pianeta dove gli ascensori i condizionatori (non solo d'aria) e i ristoranti tipici che offrono espaguety bononiesee li trovi ormai dappertutto, dei percorsi che rinnovino le fatiche psichiche e fisiche degli spostamenti del passato, offrendo però di quelli il piacere d'un'esperienza più profonda o comunque diversa, autentici "viaggi di recupero" in cui si riconquista il gusto e l'iniziativa individuali, (p. 413) - e tuttavia resta il dubbio, come mostra anche la copiosa diaristica che dal Cinquecento e per tre secoli accompagnerà i touristi, che ogni esperienza sia dovuta non al luogo o al percorso, quanto alla disposizione ricettiva di chi intraprende la via. Infatti, allora come ora, la percentuale più alta nel numero dei visitatori dell'Italia, era composta da persone che si limitavano a seguire tappe ben stabilite e consolidate: lo standard era dalle Alpi a Torino, quindi a Genova, da cui per Pisa varcando il Magra in chiatta. Dalla vituperata dantesca a Firenze e le sue rooms with a view, tramite Siena (o Arezzo), a Roma. Visti il papa e campo vaccino, si ripartiva per la via di Terracina sino a Napoli. Qui, pochi si avventuravano a Paestum, che era l'estremo limite del Tour di maniera. La più parte tornava a Roma, per incamminarsi sulla strada di Narni, facendo tappa alla cascata delle Marmore: dopodiché, le carrozze proseguivano stentando per Loreto, Ancona e Rimini, così da arrivare a Bologna. Dalla quale si raggiungeva Venezia, e da essa Milano, ultima visita prima del rientro. Scandito il percorso in tratte sempre uguali, con ritmi paragonabili agli odierni giri "quindici capitali europee in quattordici giorni", nobilotti inglesi e baronessine anseatiche, surciliosi commis francesi più o meno grands, e innocents abroad americani, si sdilinquivano dinanzi ad opere d'arte che, per quanto magnifiche, erano però sempre le stesse. E, quel che è peggio, venivano viste sempre nel medesimo modo, caricate delle identiche passioni, rispondenti alle attese stereotipe che i turisti portavano con loro dai paesi d'origine: nota Huxley (p. 372) con arguto sarcasmo ch'era disponibile una vasta gamma di "occhiali per turisti", per far virenti anche le più squallide pelate, simili al coccio di bottiglia col quale Tom Sawyer può vedere "il mondo in blu". Così come (cfr. cap. IX) tipicamente si percepivano gli italiani, non più che coro e massa pittoresca, comparse d'opera buffa intorno ai fori cadenti, o, peggio, accattoni, traffichini e infidi se adulti, (cfr. p. 378) piccoli sudicioni sguaiati e animaleschi se bambini, briganti infine con le ciocie, il cappellone a imbuto e il fucile a tromba: gente da tenere alla larga, fiacca e degenere, smidollata dal clima, dagli immobili costumi, dall'inesistenza politica (che si manifestasse nei tremebondi codini (leggi Nievo) o nelle trombonate dei carbonari da osteria), dalla superstiziosa religione. Popolo molle ovunque, eccezion fatta che nelle passioni d'amore, calientes y sangrosas, il cui emblema era "un pugnale in un mazzo di fiori" (p. 285) - calcomania pervicace: si ricordi la copertina dello Spiegel tardi anni '70 col piatto di spaghetti coronato da un revolver.
Queste truppe carrozzate, perlopiù inglesi descritti da Heine come noi oggi parliamo dei giapponesi, (p. 387) svernavano in Italia - non senza qualche ragione storica, tuttavia - con l'animo del conquistatore che va in colonia: l'insistere sulla gioconda puerilità degli italiani (p. 292) apparenta questi all'immagine razzista che gli europei avevano dei neri o degli asiatici, e che gli italiani, una volta raggiunti standard nordoccidentali, saranno ben ansiosi di ritorcere sulle popolazioni delle loro méne turistiche e immigrazione. Senza dire che la haute dei travellers in Italy riteneva doveroso, per salvaguardare dall'incuria e dal degrado l'immensa fetta del patrimonio artistico che i villici lasciavano perire per stolida indifferenza, far incetta di capolavori e d'opere magistrali (pp. 314-8, 326). Al loro fianco v'erano però viaggiatori attenti, curiosi e sensibili - Margaret Fuller, Matthew Arnold, Michail Buturlin, Joseph Forsyth - pronti a vedere l'Italia con sguardo più libero; e i capaci e meritevoli d'intraprendere - come Edward Lear e George Gissing - itinerari più vergini, come quelli offerti dal Sud: verso la Puglia di Canne (dove lustri dopo approderà il film d'esordio di Pozzèssere) passando per Avellino e la Lucania; nelle grecaniche Calabrie ionica e tirrenica; lungo le coste della Sicilia - rarissimi furono quelli che si avventurarono nell'interno dell'isola di Colapesce. In questo Sur trovavano rovina, polvere, sconcio e abbandono, e però un'immagine dell'Italia più autentica e severa di quella confezionata. Com'è ovvio, anche il loro sguardo era a tratti impuro, (de)formato dai canoni del gusto vigente: "Swinburne visita le città portuali (della Puglia), ma secondo i moduli estetici del tempo resta indifferente dinanzi all'architettura arabo-normanna delle grandi cattedrali. (...) L'architettura maggiore e minore di Puglia (...) sarebbe rimasta ancora a lungo un tesoro ignorato dai viaggiatori stranieri" (p. 260) - un tesoro nascosto sotto gli occhi di tutti. Ma questa aderenza eidetico-noetica ai propri tempi non impediva di cogliere nelle derive più eccentriche panorami e persone e parole più nuove, come nella Perugia di Hawthorne scoperta da puristi, nazareni e preraffaelliti, (p. 218) o nella Cortona degli etruscologi, (p. 217) o come altrimenti facevano i turisti (etero, omo, pedo)sessuali - Boswell, Chateaubriand, il divin marchese, Norman Douglas, per fare dei nomi. Ed anche di rimarcare quei tratti del carattere nazionale ben più che sgradevoli, fra cui la peste antisemita: lady Sidney Morgan, gentildonna d'Irlanda, rievoca il sanfedismo aretino fine settecentesco - aizzato da un emissario inglese e alimentato dalla preteria - nei suoi "orribili misfatti perpetrati, gli sventramenti dei ghetti, i roghi nelle piazze, le violenze, gli stupri, (...) la distruzione delle tipografie e la fuga di coloro che, specie tra gli ebrei, coltivavano l'arte della stampa, come Elia Passigli". (p. 331) Italiani, brava gente?
Per distinguere viaggiatore e turista allora si potrà dire che il secondo gita, come i tedeschi, per verificare l'esattezza della guida, ovvero per vedere il visto con uno sguardo prefabbricato, con gli occhi del cicerone o del collega d'ufficio che c'è stato l'anno scorso e "sai, ci devi proprio andare!"; mentre il viaggiatore, anche posto di fronte alla più usurata grandezza d'arte o di natura, sa decorticarla dello strato accumulatosi sovr'essa di luoghi comuni e immagini ricevute, laddove alla bicocca più insignificante, allo scorcio più rozzo o all'incontro col più bieco dei tafanatori saprà dare senso e personalità, arricchendo i propri.
C'è poi 'na terza sorte de figura, più inquieta, allucinata e sensitiva (e.g. Beckford, l'autore del Vathek, cfr. p. 344) : il viaggiatore romantico, che "sa che il viaggio in Italia può sovvertire il senso stesso dell'esistenza e proporsi come rinascita e come sfida alle istituzioni del paese da cui proviene", come "spazio di libertà intellettuale, di espressione emotiva e di disinibizione sessuale", anche se ancora non scevro di puntature aristocratiche e di compiacimento gonfio del senso della propria superiorità per l'arcadia e la decadenza cui assiste. (vedi p. 297) Questo viaggiatore, che "come il rabdomante sente" nei luoghi la celata presenza del "Genius loci", (Vernon Lee, p. 407) con i suoi limiti e le differenze del caso, direi precorra l'on the road. Facendosi psiconauta prima che il termine significhi, è seguace d'un percorso di sapienza e di maturazione, e di ricerca d'una realtà magica e d'un'intatta memoria (cioè infanzia: cfr. Bianciardi) del mondo e dell'uomo; un "dar nome alle strade e alle stelle" (D. Widgery) che si cercherà, modernamente, come felice ventura e impermanenza di sé nelle spoglie periferie panamericane, nei Terzi Mondi della spiritualità e dell'antitesi alla forma di vita borghese, nel contatto con i personaggi esclusi o irregolari sino alla devianza, nello scialo di sé attraverso gli stupefacenti, tickets to ride ben altri viaggi, ben altre espansioni di sensibilità e co(no)scenza.
Ho esordito rammentando la qualità di viaggio del testo di Brilli. Mi piace concludere rovesciandola, scoprendo invece una dimensione prima "grammaticale", quindi "allucinata", fabulatoria del viaggio, che in ciò si fa testo - "una trama fra scene frammentarie" (p. 424). Il tourista vede attraverso la lente deformata dello stereotipo: il suo è un muoversi "sineddochico", il quale, assumendo la parte per il tutto, "in maniera analoga alla caricatura" mette in risalto "le differenze che caratterizzano gli indigeni agli occhi dei viandanti". (p. 286) Il processo linguistico diviene processo percettivo, e viceversa: è il "mondo di carta" della novella di Pirandello, che viene letto e non visto. E la letteratura di viaggio si perpetua tramite il viaggiatore, che diviene come la gallina per i sociobiologi, null'altro che il mezzo per cui un uovo produce un altro uovo.
Ovvio allora ("meglio un ovvio oggi che una gallina domani") che il modo in cui i travellers riportano l'incontro sconvolgente per eccellenza, quello con il brigantaggio - "tutti narrano di storie assolutamente veritiere, ma sempre capitate ad altri" (p. 154) - abbia la struttura delle cosiddette "leggende metropolitane" (cfr. Laura Bonato, Trapianti sesso angosce, Meltemi, Roma 1998 p. 15): il reale convive con l'irreale che (lo) genera, così come i palazzi romani di cui parla Freud ne Il disagio della civiltà per illustrare le sue idee sulla psiche, condensano in una le loro architetture, dalla più remota all'attuale - o come, più modestamente, avviene nel Viaggio a Goldonia di Gregoretti.
Perciò, se nessuno dice più balle del pescatore a valle, anche i viaggiatori non scherzano. Ne Il dono degli ingegni, (citato in "Archeo", marzo 2006, p. 102) il viaggiatore arabo Abu Hamid, descrive il Tevere nella Roma dell'undecimo secolo come "un fiume di rame profondo 40 cubiti (poco meno di un miglio marino) e largo altrettanto, lastricato di placche di rame lunghe 50 cubiti (2 km e duecento metri) e della spessezza di due" (88 metri). Achille Campanile avrebbe commentato: "e dove lo mettiamo, questo? Fra i grandi viaggiatori, o tra i grandi fregnacciari?" Ma abbiamo visto che gli estremi - il tourista infatuato da prototipi e stereotipi, e l'allucinato viaggiatore romantico, si toccano: "non c'è viaggio reale che non tenga a porsi sulle orme di un viaggio immaginario". (p. 357) Allora o si viaggia nella propria stanza (De Maistre, Ceronetti), o si va in pellegrinaggio in Terra Santa muovendosi nel giardino di casa fino ad aver coperto la distanza esatta tra il paesello e Gerusalemme, come vediamo fare nel documentario di Rossellini sulla Sicilia. Oppure, per spezzare l'incantesimo del vedere i luoghi non come sono, ma come vorremmo che fossero, ci si fa, con modestia e ironia, Turisti per caso, siccome afferma Brilli: "la ragione moderna può ricreare solo in via riflessiva o nella simulata ingenuità della fanciullezza la parvenza dell'intimo, totale rapporto con la natura d'un luogo". (p. 398)
E però sempre chiedersi, con Montale: "e ora che ne sarà / del mio viaggio?"
di Marco Lanzòl
Ed è proprio un viaggio la lettura del lavoro di Brilli, un viaggio della mente attraverso consuetudini, ambienti e luoghi, difficoltà e meraviglie, che la tecnica dei trasporti da un verso, e quella delle comunicazioni dall'altro, hanno attutito, smussato, annacquato. Non c'è più il tormento, è vero, delle strade fangose, delle carrozze scomode e graveolenti, delle osterie dai giacigli animati da pulci e zecche, intrisi di lue e tbc, dei pericoli (esagerati) di ratto o furto: ma anche l'estasi (come, per la Signoret, la nostalgia) non è più quella di una volta - a meno d'inventarsi, su questo pianeta dove gli ascensori i condizionatori (non solo d'aria) e i ristoranti tipici che offrono espaguety bononiesee li trovi ormai dappertutto, dei percorsi che rinnovino le fatiche psichiche e fisiche degli spostamenti del passato, offrendo però di quelli il piacere d'un'esperienza più profonda o comunque diversa, autentici "viaggi di recupero" in cui si riconquista il gusto e l'iniziativa individuali, (p. 413) - e tuttavia resta il dubbio, come mostra anche la copiosa diaristica che dal Cinquecento e per tre secoli accompagnerà i touristi, che ogni esperienza sia dovuta non al luogo o al percorso, quanto alla disposizione ricettiva di chi intraprende la via. Infatti, allora come ora, la percentuale più alta nel numero dei visitatori dell'Italia, era composta da persone che si limitavano a seguire tappe ben stabilite e consolidate: lo standard era dalle Alpi a Torino, quindi a Genova, da cui per Pisa varcando il Magra in chiatta. Dalla vituperata dantesca a Firenze e le sue rooms with a view, tramite Siena (o Arezzo), a Roma. Visti il papa e campo vaccino, si ripartiva per la via di Terracina sino a Napoli. Qui, pochi si avventuravano a Paestum, che era l'estremo limite del Tour di maniera. La più parte tornava a Roma, per incamminarsi sulla strada di Narni, facendo tappa alla cascata delle Marmore: dopodiché, le carrozze proseguivano stentando per Loreto, Ancona e Rimini, così da arrivare a Bologna. Dalla quale si raggiungeva Venezia, e da essa Milano, ultima visita prima del rientro. Scandito il percorso in tratte sempre uguali, con ritmi paragonabili agli odierni giri "quindici capitali europee in quattordici giorni", nobilotti inglesi e baronessine anseatiche, surciliosi commis francesi più o meno grands, e innocents abroad americani, si sdilinquivano dinanzi ad opere d'arte che, per quanto magnifiche, erano però sempre le stesse. E, quel che è peggio, venivano viste sempre nel medesimo modo, caricate delle identiche passioni, rispondenti alle attese stereotipe che i turisti portavano con loro dai paesi d'origine: nota Huxley (p. 372) con arguto sarcasmo ch'era disponibile una vasta gamma di "occhiali per turisti", per far virenti anche le più squallide pelate, simili al coccio di bottiglia col quale Tom Sawyer può vedere "il mondo in blu". Così come (cfr. cap. IX) tipicamente si percepivano gli italiani, non più che coro e massa pittoresca, comparse d'opera buffa intorno ai fori cadenti, o, peggio, accattoni, traffichini e infidi se adulti, (cfr. p. 378) piccoli sudicioni sguaiati e animaleschi se bambini, briganti infine con le ciocie, il cappellone a imbuto e il fucile a tromba: gente da tenere alla larga, fiacca e degenere, smidollata dal clima, dagli immobili costumi, dall'inesistenza politica (che si manifestasse nei tremebondi codini (leggi Nievo) o nelle trombonate dei carbonari da osteria), dalla superstiziosa religione. Popolo molle ovunque, eccezion fatta che nelle passioni d'amore, calientes y sangrosas, il cui emblema era "un pugnale in un mazzo di fiori" (p. 285) - calcomania pervicace: si ricordi la copertina dello Spiegel tardi anni '70 col piatto di spaghetti coronato da un revolver.
Queste truppe carrozzate, perlopiù inglesi descritti da Heine come noi oggi parliamo dei giapponesi, (p. 387) svernavano in Italia - non senza qualche ragione storica, tuttavia - con l'animo del conquistatore che va in colonia: l'insistere sulla gioconda puerilità degli italiani (p. 292) apparenta questi all'immagine razzista che gli europei avevano dei neri o degli asiatici, e che gli italiani, una volta raggiunti standard nordoccidentali, saranno ben ansiosi di ritorcere sulle popolazioni delle loro méne turistiche e immigrazione. Senza dire che la haute dei travellers in Italy riteneva doveroso, per salvaguardare dall'incuria e dal degrado l'immensa fetta del patrimonio artistico che i villici lasciavano perire per stolida indifferenza, far incetta di capolavori e d'opere magistrali (pp. 314-8, 326). Al loro fianco v'erano però viaggiatori attenti, curiosi e sensibili - Margaret Fuller, Matthew Arnold, Michail Buturlin, Joseph Forsyth - pronti a vedere l'Italia con sguardo più libero; e i capaci e meritevoli d'intraprendere - come Edward Lear e George Gissing - itinerari più vergini, come quelli offerti dal Sud: verso la Puglia di Canne (dove lustri dopo approderà il film d'esordio di Pozzèssere) passando per Avellino e la Lucania; nelle grecaniche Calabrie ionica e tirrenica; lungo le coste della Sicilia - rarissimi furono quelli che si avventurarono nell'interno dell'isola di Colapesce. In questo Sur trovavano rovina, polvere, sconcio e abbandono, e però un'immagine dell'Italia più autentica e severa di quella confezionata. Com'è ovvio, anche il loro sguardo era a tratti impuro, (de)formato dai canoni del gusto vigente: "Swinburne visita le città portuali (della Puglia), ma secondo i moduli estetici del tempo resta indifferente dinanzi all'architettura arabo-normanna delle grandi cattedrali. (...) L'architettura maggiore e minore di Puglia (...) sarebbe rimasta ancora a lungo un tesoro ignorato dai viaggiatori stranieri" (p. 260) - un tesoro nascosto sotto gli occhi di tutti. Ma questa aderenza eidetico-noetica ai propri tempi non impediva di cogliere nelle derive più eccentriche panorami e persone e parole più nuove, come nella Perugia di Hawthorne scoperta da puristi, nazareni e preraffaelliti, (p. 218) o nella Cortona degli etruscologi, (p. 217) o come altrimenti facevano i turisti (etero, omo, pedo)sessuali - Boswell, Chateaubriand, il divin marchese, Norman Douglas, per fare dei nomi. Ed anche di rimarcare quei tratti del carattere nazionale ben più che sgradevoli, fra cui la peste antisemita: lady Sidney Morgan, gentildonna d'Irlanda, rievoca il sanfedismo aretino fine settecentesco - aizzato da un emissario inglese e alimentato dalla preteria - nei suoi "orribili misfatti perpetrati, gli sventramenti dei ghetti, i roghi nelle piazze, le violenze, gli stupri, (...) la distruzione delle tipografie e la fuga di coloro che, specie tra gli ebrei, coltivavano l'arte della stampa, come Elia Passigli". (p. 331) Italiani, brava gente?
Per distinguere viaggiatore e turista allora si potrà dire che il secondo gita, come i tedeschi, per verificare l'esattezza della guida, ovvero per vedere il visto con uno sguardo prefabbricato, con gli occhi del cicerone o del collega d'ufficio che c'è stato l'anno scorso e "sai, ci devi proprio andare!"; mentre il viaggiatore, anche posto di fronte alla più usurata grandezza d'arte o di natura, sa decorticarla dello strato accumulatosi sovr'essa di luoghi comuni e immagini ricevute, laddove alla bicocca più insignificante, allo scorcio più rozzo o all'incontro col più bieco dei tafanatori saprà dare senso e personalità, arricchendo i propri.
C'è poi 'na terza sorte de figura, più inquieta, allucinata e sensitiva (e.g. Beckford, l'autore del Vathek, cfr. p. 344) : il viaggiatore romantico, che "sa che il viaggio in Italia può sovvertire il senso stesso dell'esistenza e proporsi come rinascita e come sfida alle istituzioni del paese da cui proviene", come "spazio di libertà intellettuale, di espressione emotiva e di disinibizione sessuale", anche se ancora non scevro di puntature aristocratiche e di compiacimento gonfio del senso della propria superiorità per l'arcadia e la decadenza cui assiste. (vedi p. 297) Questo viaggiatore, che "come il rabdomante sente" nei luoghi la celata presenza del "Genius loci", (Vernon Lee, p. 407) con i suoi limiti e le differenze del caso, direi precorra l'on the road. Facendosi psiconauta prima che il termine significhi, è seguace d'un percorso di sapienza e di maturazione, e di ricerca d'una realtà magica e d'un'intatta memoria (cioè infanzia: cfr. Bianciardi) del mondo e dell'uomo; un "dar nome alle strade e alle stelle" (D. Widgery) che si cercherà, modernamente, come felice ventura e impermanenza di sé nelle spoglie periferie panamericane, nei Terzi Mondi della spiritualità e dell'antitesi alla forma di vita borghese, nel contatto con i personaggi esclusi o irregolari sino alla devianza, nello scialo di sé attraverso gli stupefacenti, tickets to ride ben altri viaggi, ben altre espansioni di sensibilità e co(no)scenza.
Ho esordito rammentando la qualità di viaggio del testo di Brilli. Mi piace concludere rovesciandola, scoprendo invece una dimensione prima "grammaticale", quindi "allucinata", fabulatoria del viaggio, che in ciò si fa testo - "una trama fra scene frammentarie" (p. 424). Il tourista vede attraverso la lente deformata dello stereotipo: il suo è un muoversi "sineddochico", il quale, assumendo la parte per il tutto, "in maniera analoga alla caricatura" mette in risalto "le differenze che caratterizzano gli indigeni agli occhi dei viandanti". (p. 286) Il processo linguistico diviene processo percettivo, e viceversa: è il "mondo di carta" della novella di Pirandello, che viene letto e non visto. E la letteratura di viaggio si perpetua tramite il viaggiatore, che diviene come la gallina per i sociobiologi, null'altro che il mezzo per cui un uovo produce un altro uovo.
Ovvio allora ("meglio un ovvio oggi che una gallina domani") che il modo in cui i travellers riportano l'incontro sconvolgente per eccellenza, quello con il brigantaggio - "tutti narrano di storie assolutamente veritiere, ma sempre capitate ad altri" (p. 154) - abbia la struttura delle cosiddette "leggende metropolitane" (cfr. Laura Bonato, Trapianti sesso angosce, Meltemi, Roma 1998 p. 15): il reale convive con l'irreale che (lo) genera, così come i palazzi romani di cui parla Freud ne Il disagio della civiltà per illustrare le sue idee sulla psiche, condensano in una le loro architetture, dalla più remota all'attuale - o come, più modestamente, avviene nel Viaggio a Goldonia di Gregoretti.
Perciò, se nessuno dice più balle del pescatore a valle, anche i viaggiatori non scherzano. Ne Il dono degli ingegni, (citato in "Archeo", marzo 2006, p. 102) il viaggiatore arabo Abu Hamid, descrive il Tevere nella Roma dell'undecimo secolo come "un fiume di rame profondo 40 cubiti (poco meno di un miglio marino) e largo altrettanto, lastricato di placche di rame lunghe 50 cubiti (2 km e duecento metri) e della spessezza di due" (88 metri). Achille Campanile avrebbe commentato: "e dove lo mettiamo, questo? Fra i grandi viaggiatori, o tra i grandi fregnacciari?" Ma abbiamo visto che gli estremi - il tourista infatuato da prototipi e stereotipi, e l'allucinato viaggiatore romantico, si toccano: "non c'è viaggio reale che non tenga a porsi sulle orme di un viaggio immaginario". (p. 357) Allora o si viaggia nella propria stanza (De Maistre, Ceronetti), o si va in pellegrinaggio in Terra Santa muovendosi nel giardino di casa fino ad aver coperto la distanza esatta tra il paesello e Gerusalemme, come vediamo fare nel documentario di Rossellini sulla Sicilia. Oppure, per spezzare l'incantesimo del vedere i luoghi non come sono, ma come vorremmo che fossero, ci si fa, con modestia e ironia, Turisti per caso, siccome afferma Brilli: "la ragione moderna può ricreare solo in via riflessiva o nella simulata ingenuità della fanciullezza la parvenza dell'intimo, totale rapporto con la natura d'un luogo". (p. 398)
E però sempre chiedersi, con Montale: "e ora che ne sarà / del mio viaggio?"
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