RECENSIONI
Giancarlo Pastore
Io non so chi sei
Instar libri, Pag. 180 Euro 13,50
Su Repubblica dell'11 giugno di quest'anno, nelle pagine interne della cultura, c'è un articolo intitolato: la letteratura post-gay. Definizione, pare, attribuita a David Leavitt, con cui s'intende il nuovo corso (o la nuova frontiera) degli scrittori Usa che vogliono raccontare storie quotidiane che possono parlare a tutti.
Da sbellicarsi dalle risate: non è nemmeno tanto vero che l'Italia, rispetto al problema, è ancora un paese retrogrado; basta dare un'occhiata anche alle pellicole che vengono da oltre oceano per rendersi conto che la tematica gay non è risolvibile con etichette o lanci di proclami. L'Italia è comunque un paese retrogrado perché sono falsi, ipocriti e lagnosi quei pochi che scrivono di questo: qui abbiamo ancora un Severini che tratta la materia come se fosse argomento da basso impero clericale (per carità, lo siamo ancora un basso impero clericale, ma uno scattino di orgoglio, quello no?); abbiamo un Bo che parla di froci come di una 'casta' culturale elitaria; abbiamo un Siti che invece si limita ad una sessualità ap-pagante (attenti al trattino!) un po' ripetitiva e autoreferenziale (peccato, perché lui sì che è un grande scrittore!).
Cos'è che Leavitt vuol dire con la definizione di letteratura post-gay? Vuole affermare il diritto dell'omosessuale a raccontare una normalità fuori dai soliti schemi triti e ritriti e imposti da una cultura dominante eterosessista. Tutto ok (ma qui torna Siti che nell'articolo su Repubblica imbocca la polemica: 'ma la normalità – dice - rischia di essere un po' noiosa), ma dov'è dunque la virtù? Cioè, dove troviamo quel modello di riferimento che ci possa far dire comunque che chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, scurdammoce 'o passat' simm' 'e napule paisà?
Non viene certo da Giancarlo Pastore (che era tra i nomi italiani indicati come foriero di cambiamenti e svolte). Lo confesso: non conosco i suoi due romanzi pubblicati da Bompiani (di uno ne parla nell'ultimo racconto della presente antologia in un attacco di solipsismo allucinato) e quindi devo limitarmi ad un giudizio circoscritto, ma quel che leggo non mi entusiasma affatto. Perché se devo partire dall'assunto di cui sopra, Pastore non solo non vi si adatta, ma spesso cade nella mestizia pre-orgoglio gay. Passi Filippo, storia che accosterei al primo minimalismo americano; passi Ghost whisperer che racconta di un lutto (ma anche qui: cos'è 'sta manfrina che i gay debbano passare inevitabilmente attraverso tragedie e disgrazie?), ma il resto lo trovo banale e a volte insopportabile (come nel racconto Caravel, in cui in un dialogo tra un gay e una trans, quest'ultima risponde all'interlocutore con frasi prese dalle canzoni di Mina!!) e parallelo, se non addirittura confluente, alla deriva piagnona e per nulla 'post' della letteratura gay tutta italiana.
E' vero anche che Pastore (perché nasconderlo?) tenta la carta di una normalità istituzionalizzata (...nella classifica dei momenti più belli della mia vita ci sono i mesi che abbiamo impiegato a progettare questa casa, a scegliere i materiali, i colori, ad andare in giro per mobili. Al primo posto della classifica c'è il giorno in cui ho smesso di dire «io» e ho iniziato a dire «noi»), ma lo fa con poca misura e cadendo nel tranello della ripetitività del 'genere'. Forse la vera svolta della letteratura gay sarà quando si smetterà di qualificarla, senza per questo inficiare la battaglia sui diritti. Per il momento mi pare che Pastore non sia sulla buona strada, ma non lo è nemmeno Leavitt che non scrive una riga decente da anni, semmai l'ha scritta.
di Alfredo Ronci
Da sbellicarsi dalle risate: non è nemmeno tanto vero che l'Italia, rispetto al problema, è ancora un paese retrogrado; basta dare un'occhiata anche alle pellicole che vengono da oltre oceano per rendersi conto che la tematica gay non è risolvibile con etichette o lanci di proclami. L'Italia è comunque un paese retrogrado perché sono falsi, ipocriti e lagnosi quei pochi che scrivono di questo: qui abbiamo ancora un Severini che tratta la materia come se fosse argomento da basso impero clericale (per carità, lo siamo ancora un basso impero clericale, ma uno scattino di orgoglio, quello no?); abbiamo un Bo che parla di froci come di una 'casta' culturale elitaria; abbiamo un Siti che invece si limita ad una sessualità ap-pagante (attenti al trattino!) un po' ripetitiva e autoreferenziale (peccato, perché lui sì che è un grande scrittore!).
Cos'è che Leavitt vuol dire con la definizione di letteratura post-gay? Vuole affermare il diritto dell'omosessuale a raccontare una normalità fuori dai soliti schemi triti e ritriti e imposti da una cultura dominante eterosessista. Tutto ok (ma qui torna Siti che nell'articolo su Repubblica imbocca la polemica: 'ma la normalità – dice - rischia di essere un po' noiosa), ma dov'è dunque la virtù? Cioè, dove troviamo quel modello di riferimento che ci possa far dire comunque che chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, scurdammoce 'o passat' simm' 'e napule paisà?
Non viene certo da Giancarlo Pastore (che era tra i nomi italiani indicati come foriero di cambiamenti e svolte). Lo confesso: non conosco i suoi due romanzi pubblicati da Bompiani (di uno ne parla nell'ultimo racconto della presente antologia in un attacco di solipsismo allucinato) e quindi devo limitarmi ad un giudizio circoscritto, ma quel che leggo non mi entusiasma affatto. Perché se devo partire dall'assunto di cui sopra, Pastore non solo non vi si adatta, ma spesso cade nella mestizia pre-orgoglio gay. Passi Filippo, storia che accosterei al primo minimalismo americano; passi Ghost whisperer che racconta di un lutto (ma anche qui: cos'è 'sta manfrina che i gay debbano passare inevitabilmente attraverso tragedie e disgrazie?), ma il resto lo trovo banale e a volte insopportabile (come nel racconto Caravel, in cui in un dialogo tra un gay e una trans, quest'ultima risponde all'interlocutore con frasi prese dalle canzoni di Mina!!) e parallelo, se non addirittura confluente, alla deriva piagnona e per nulla 'post' della letteratura gay tutta italiana.
E' vero anche che Pastore (perché nasconderlo?) tenta la carta di una normalità istituzionalizzata (...nella classifica dei momenti più belli della mia vita ci sono i mesi che abbiamo impiegato a progettare questa casa, a scegliere i materiali, i colori, ad andare in giro per mobili. Al primo posto della classifica c'è il giorno in cui ho smesso di dire «io» e ho iniziato a dire «noi»), ma lo fa con poca misura e cadendo nel tranello della ripetitività del 'genere'. Forse la vera svolta della letteratura gay sarà quando si smetterà di qualificarla, senza per questo inficiare la battaglia sui diritti. Per il momento mi pare che Pastore non sia sulla buona strada, ma non lo è nemmeno Leavitt che non scrive una riga decente da anni, semmai l'ha scritta.
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