RECENSIONI
Burhan Sönmez
Istanbul Istanbul
Nottetempo, Traduzione di Anna Valenti, Pag. 299 Euro 17,00
Mi ero domandata il senso del titolo. Quel nome di città reiterato, quell’enfatizzazione geografica, quando si sa che il luogo in cui si muovono i personaggi è un carcere buio al terzo livello del sottosuolo, dove non è dato capire nemmeno se sia giorno o notte, e che potrebbe essere situato in ogni parte del mondo o fuori dal mondo.
Eppure appena si comincia a leggere è tutto chiaro. Perché in quell’oscurità orrida e delirante, scandita più dalla cadenza delle torture che da quella dei pasti, la presenza di Istanbul o meglio del mito di Istanbul è l’unico appiglio alla vita e alla speranza. Ed è chiaro il motivo per cui la parola è ripetuta come un mantra, come una preghiera e un lamento. Così come Mosca è invocata dalla Irina di Cechov. Un mito di cui si cibano gli afflitti.
Ma è anche molto di più. È il luogo della memoria, dei frutti raccolti e delle occasioni mancate. Degli amori veri e di quelli sognati. Delle contraddizioni che ne fanno lo specchio stesso del mondo. Bella e dannata come una sposa infedele, è il crocevia di ogni possibile destino.
Quattro uomini dividono una cella sporca e gelida dove sono approdati perché a torto o a ragione sono considerati pericolosi dissidenti. Non possono sperare nell’aiuto del mondo di fuori, che forse ignora la loro sorte, e tantomeno nella clemenza dei carcerieri, che sono lì apposta per infliggere loro la maggiore quantità possibile di umiliazioni e sofferenze. Una situazione tale da capovolgere la loro prospettiva.
I primi giorni era impossibile rendersi conto fino in fondo di quel che accadeva. Per quanto ci si sforzasse, era difficile creare una connessione fra la cella e se stessi. Poi si cominciava a pensare al tempo. La vita che avevamo vissuto in città apparteneva a qualche settimana o a qualche centinaia di anni prima?
Pochi sono gli strumenti a disposizione per continuare a resistere senza impazzire fra un interrogatorio e l’altro. La strategia più semplice è quella di offrirsi reciprocamente le più elementari forme di aiuto: scaldarsi con la vicinanza dei corpi, porgersi il pane o l’acqua, pulirsi vicendevolmente dal sangue. Ma ancora non basta. Allora bisogna ricorrere all’immaginazione.
A volte si pensa alla fantasia come a un lusso. Non si riflette abbastanza sull’enorme potenziale di conforto e cura che la fantasia ha per l’essere umano. Raccontare e ascoltare storie, immaginarsi in situazioni diverse da quella in cui ci si trova. È questo che i prigionieri fanno incessantemente, e nel farlo riescono a provare sollievo e perfino a ridere. Raccontano a turno, commentano, confrontano le storie e filosofeggiano. Fumano sigarette immaginarie, fingono di consumare pasti gustosi contemplando il panorama da una terrazza sul mare. A volte evocano i loro ricordi, altre volte narrano fiabe o apologhi, o risolvono indovinelli. Ma è Istanbul che finisce sempre per essere la protagonista privilegiata, e mal tollerando di far da sfondo si guadagna imperiosamente il primo piano.
… per noi ogni città è Istanbul. Se un bambino rimane fuori al buio e si perde nelle strade strette, quel luogo è Istanbul. La città in cui il giovane si avventura per cercare la sua amata, quella dei cacciatori che partono alla ricerca del vello della volpe nera, quella della nave trascinata dalla tempesta (…) Ogni storia gira intorno a Istanbul.
Con un occhio alle Mille e una notte e un altro al Decamerone i protagonisti finiscono per raccontare se stessi.
L’Autore intreccia i diversi fili della narrazione con arte sopraffina mescolando i toni soffusi e onirici a quelli più crudi, dando voci diverse ai personaggi narranti ed evidenza scenica a quelli che compaiono nei loro racconti. Una tessitura magistrale che commuove senza mai calcare la mano. Una scrittura originale e profonda.
di Giovanna Repetto
Eppure appena si comincia a leggere è tutto chiaro. Perché in quell’oscurità orrida e delirante, scandita più dalla cadenza delle torture che da quella dei pasti, la presenza di Istanbul o meglio del mito di Istanbul è l’unico appiglio alla vita e alla speranza. Ed è chiaro il motivo per cui la parola è ripetuta come un mantra, come una preghiera e un lamento. Così come Mosca è invocata dalla Irina di Cechov. Un mito di cui si cibano gli afflitti.
Ma è anche molto di più. È il luogo della memoria, dei frutti raccolti e delle occasioni mancate. Degli amori veri e di quelli sognati. Delle contraddizioni che ne fanno lo specchio stesso del mondo. Bella e dannata come una sposa infedele, è il crocevia di ogni possibile destino.
Quattro uomini dividono una cella sporca e gelida dove sono approdati perché a torto o a ragione sono considerati pericolosi dissidenti. Non possono sperare nell’aiuto del mondo di fuori, che forse ignora la loro sorte, e tantomeno nella clemenza dei carcerieri, che sono lì apposta per infliggere loro la maggiore quantità possibile di umiliazioni e sofferenze. Una situazione tale da capovolgere la loro prospettiva.
I primi giorni era impossibile rendersi conto fino in fondo di quel che accadeva. Per quanto ci si sforzasse, era difficile creare una connessione fra la cella e se stessi. Poi si cominciava a pensare al tempo. La vita che avevamo vissuto in città apparteneva a qualche settimana o a qualche centinaia di anni prima?
Pochi sono gli strumenti a disposizione per continuare a resistere senza impazzire fra un interrogatorio e l’altro. La strategia più semplice è quella di offrirsi reciprocamente le più elementari forme di aiuto: scaldarsi con la vicinanza dei corpi, porgersi il pane o l’acqua, pulirsi vicendevolmente dal sangue. Ma ancora non basta. Allora bisogna ricorrere all’immaginazione.
A volte si pensa alla fantasia come a un lusso. Non si riflette abbastanza sull’enorme potenziale di conforto e cura che la fantasia ha per l’essere umano. Raccontare e ascoltare storie, immaginarsi in situazioni diverse da quella in cui ci si trova. È questo che i prigionieri fanno incessantemente, e nel farlo riescono a provare sollievo e perfino a ridere. Raccontano a turno, commentano, confrontano le storie e filosofeggiano. Fumano sigarette immaginarie, fingono di consumare pasti gustosi contemplando il panorama da una terrazza sul mare. A volte evocano i loro ricordi, altre volte narrano fiabe o apologhi, o risolvono indovinelli. Ma è Istanbul che finisce sempre per essere la protagonista privilegiata, e mal tollerando di far da sfondo si guadagna imperiosamente il primo piano.
… per noi ogni città è Istanbul. Se un bambino rimane fuori al buio e si perde nelle strade strette, quel luogo è Istanbul. La città in cui il giovane si avventura per cercare la sua amata, quella dei cacciatori che partono alla ricerca del vello della volpe nera, quella della nave trascinata dalla tempesta (…) Ogni storia gira intorno a Istanbul.
Con un occhio alle Mille e una notte e un altro al Decamerone i protagonisti finiscono per raccontare se stessi.
L’Autore intreccia i diversi fili della narrazione con arte sopraffina mescolando i toni soffusi e onirici a quelli più crudi, dando voci diverse ai personaggi narranti ed evidenza scenica a quelli che compaiono nei loro racconti. Una tessitura magistrale che commuove senza mai calcare la mano. Una scrittura originale e profonda.
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