RECENSIONI
Giovanni Russo
L'Italia dei poveri
Hacca edizioni, Pag. 382 Euro 16,00
L'Italia dei poveri: un titolo che sembra persino meno attuale di quanto non risulti temibilmente futuribile. E invece si tratta di un lavoro apparso per la prima volta nel nel 1958, firmato dal giornalista Giovanni Russo per Longanesi, poi in una seconda edizione con Marsilio nel 1982 e ora ripubblicato in una bella confezione editoriale e limpida prefazione di Giuseppe Lupo per l'editore marchigiano Hacca. Il volume raccoglie(va) una serie di inchieste, interviste, racconti maturati nella prima metà degli anni Cinquanta in quella parte cospicua del paese che a fatica cercava di allontanare un secolare passato di miserie e violente soggezioni a un padrone qualsiasi, a volte riuscendovi, perlopiù continuando a soccombere centellinando anche le speranze.
Il quadro complessivo descrive non tanto un "mondo chiuso" alla Levi (Carlo, s'intende, scrittore cui spesso Russo viene avvicinato, del quale è a ogni modo un esegeta riconosciuto, stante anche alcune pubblicazioni recenti che il giornalista – ma la parola qui è limitante – salernitano dedica allo scrittore piemontese); non solo perché Russo non si limita a raccontare il sud. Intanto, trova sufficiente materiale di disgrazie da Milano a Venezia, da Genova a Trieste, e poi lo stesso sud che interessa al suo sguardo di cronista cólto abbraccia meno il paesino che la città - Napoli, per dire, che contende a Roma il primato dell'accattonaggio, città in cui il numero di abitanti che assomigliano al Pulcinella della tradizione non si contano. Diventare servili è una possibilità molto concreta dell'abitudine alla povertà: poco romantico, ma tant'è.
Diverso dal lavoro di Levi, ancora, perché Russo seguiva le trasformazioni in corso – fabbriche, cantieri più o meno improvvisati, operai, baraccati dell'emigrazione, borgate – sempre concentrando il fuoco sui risvolti che il cosiddetto processo di modernizzazione scriveva sulla pelle dei poveri. Che intanto lavoravano, press'a poco come ora, con contratti sommari, paghe miserevoli, raccomandazioni di partito e amicizie interessate. Che al netto dei peculiari tratti socio-antropologici, parrebbe non quella dei poveri, ma l'Italia tout court, non quella di mezzo secolo fa, ma la presente e più morta che viva – almeno, se abbiamo ancora a cuore uno straccio di animo illuminista. Tornando a mezzo secolo fa, e al libro in questione, le ingiustizie si sprecano, l'urbanizzazione sradica migliaia di persone da contesti atavici per gettarli dentro palazzoni anonimi e grigi in cui i corpi di uomini che esistono soltanto come forza-lavoro non hanno alcun conforto psicologico o culturale. Restano le chiese, quella democratico-cristiana e quella comunista, che per trovare lavoro sono fondamentali. Intanto quella cattolica vigila affinché dai poveri abbia tutto da guadagnare, laddove invece anche nelle campagne arrivava l'eco di convinzioni materialistiche che mettevano e repentaglio molte "vocazioni" – il tracollo delle quali iniziò proprio in quegli anni. Ora, le brevi storie di Russo, tutto questo lo dicono riducendo all'essenziale l'apporto di generiche teorie o facili categorizzazioni ideologiche, e piuttosto raccontando singole vicende spesso private di famiglie o persone che vivevano ai margini della grande Storia e ne costituivano però, come sempre, il paesaggio più vero.
di Michele Lupo
Il quadro complessivo descrive non tanto un "mondo chiuso" alla Levi (Carlo, s'intende, scrittore cui spesso Russo viene avvicinato, del quale è a ogni modo un esegeta riconosciuto, stante anche alcune pubblicazioni recenti che il giornalista – ma la parola qui è limitante – salernitano dedica allo scrittore piemontese); non solo perché Russo non si limita a raccontare il sud. Intanto, trova sufficiente materiale di disgrazie da Milano a Venezia, da Genova a Trieste, e poi lo stesso sud che interessa al suo sguardo di cronista cólto abbraccia meno il paesino che la città - Napoli, per dire, che contende a Roma il primato dell'accattonaggio, città in cui il numero di abitanti che assomigliano al Pulcinella della tradizione non si contano. Diventare servili è una possibilità molto concreta dell'abitudine alla povertà: poco romantico, ma tant'è.
Diverso dal lavoro di Levi, ancora, perché Russo seguiva le trasformazioni in corso – fabbriche, cantieri più o meno improvvisati, operai, baraccati dell'emigrazione, borgate – sempre concentrando il fuoco sui risvolti che il cosiddetto processo di modernizzazione scriveva sulla pelle dei poveri. Che intanto lavoravano, press'a poco come ora, con contratti sommari, paghe miserevoli, raccomandazioni di partito e amicizie interessate. Che al netto dei peculiari tratti socio-antropologici, parrebbe non quella dei poveri, ma l'Italia tout court, non quella di mezzo secolo fa, ma la presente e più morta che viva – almeno, se abbiamo ancora a cuore uno straccio di animo illuminista. Tornando a mezzo secolo fa, e al libro in questione, le ingiustizie si sprecano, l'urbanizzazione sradica migliaia di persone da contesti atavici per gettarli dentro palazzoni anonimi e grigi in cui i corpi di uomini che esistono soltanto come forza-lavoro non hanno alcun conforto psicologico o culturale. Restano le chiese, quella democratico-cristiana e quella comunista, che per trovare lavoro sono fondamentali. Intanto quella cattolica vigila affinché dai poveri abbia tutto da guadagnare, laddove invece anche nelle campagne arrivava l'eco di convinzioni materialistiche che mettevano e repentaglio molte "vocazioni" – il tracollo delle quali iniziò proprio in quegli anni. Ora, le brevi storie di Russo, tutto questo lo dicono riducendo all'essenziale l'apporto di generiche teorie o facili categorizzazioni ideologiche, e piuttosto raccontando singole vicende spesso private di famiglie o persone che vivevano ai margini della grande Storia e ne costituivano però, come sempre, il paesaggio più vero.
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