CLASSICI
Alfredo Ronci
L’Italia si fa: “Paura all’alba” di Arrigo Benedetti.
Nell’esaminare opere o autori della nostra letteratura spesso mi vien da cercare (anche se senza il piglio del critico petulante) situazioni, avvenimenti o altro che in qualche modo rompono un po’ la monotonia dell’uomo perfetto o del libro inviolabile.
Non chiedetemi il perché, ma stavolta l’ho fatto con un grande del giornalismo, che nei suoi primi tentativi di scrittura si rivelò anche narratore di razza, senza per questo produrre opere di un certo rilievo programmatico: Arrigo Benedetti.
Lasciamo stare (almeno in questo contesto) la sua attività di giornalista (conobbe un po’ tutti, almeno quelli del giornalismo di grido e fondò anche riviste di un certo peso che tutt’ora, anche se con cambi di veduta differenti, resistono nelle nostre edicole).
Prendiamo invece la sua attività letteraria che prima di Paura all’alba propose I misteri della città (1941), Le donne fantastiche (1942) e Una donna all’inferno (1945). Anche Paura all’alba uscì nel 1945 e tra le altre cose, nella copertina principale, riportava un disegno di Renato Guttuso.
Fu proprio questo titolo ad aprirgli definitivamente la strada verso una letteratura che proponeva una attenta analisi del periodo fascista e a dargli anche una sistemazione letteraria di tutto rispetto.
Ed è qui che la mia ricerca ha rivelato risultati che in qualche modo lo disegnano diversamente: come per esempio l’immagine che Giose Rimanelli, nel suo libro Il mestiere del furbo, che crediamo anche fatto per riscattarsi dell’esito del suo libro repubblichino (Tiro al piccione) fa dello scrittore-giornalista ormai consegnato all’intelligenza ‘romana’… Nel salotto De Giorgi, più o meno, nasce l’equipe di Mercurio, e vi si incontrano Tecchi ed Antonello Trombadori, la Brin e Palma Bucarelli, Gorresio e Monelli, Gino De Sanctis e Arrigo benedetti, Agostino degli Espinosa e Alberto Mondadori (…) Fascisti e antifascisti si ritrovarono nelle due accoglienti stanze dell’attrice e a bere ottimo scotch, a compatirsi a vicenda e a stringere quelle alleanze che infine porteranno al compromesso generale.
Diversa invece l’allure di Oreste del Buono: Era troppo forte la tentazione di identificarlo in certi personaggi di sognatori e di passeggiatori a vuoto delle pagine della raccolta dei suoi racconti ne I misteri della città, pubblicata da Vallecchi a Firenze nel 1941, o del suo romanzo Le donne fantastiche, apparso presso Einaudi a Torino nel 1942. C’era tutta quell’inclinazione al culto di un segreto ineffabile che più tardi avrei ritrovato come una caratteristica dei lucchesi. Una rarefazione di parole e di presenza, un incanto sovrapponentesi a qualsiasi appello alla realtà.
Dunque giudizi francamente diversi per personaggi o intellettuali francamente diversi. Chiaro, le esperienze e gli avvenimenti che Benedetti riporta nel suo libro in qualche modo lo classificarono appieno. E’ in pratica la storia di un personaggio che prende via via coscienza di essere antifascista e dei furenti accadimenti che succedono dopo l’8 settembre del 1943.
Accadimenti che Benedetti subì veramente, tanto che il libro viene indicato come un’autobiografia abbastanza testimoniale (se qualcuno dovesse dirmi come qualificare il romanzo, potrei affermare che è un romanzo di quadri, cioè di una successione, a volte non diretta, ma egualmente significativa della storia e delle sue disperazioni).
C’è di tutto in quelle, nemmeno troppo vistose, pagine del libro. Come ad esempio la presa di coscienza del brutto periodo che si stava vivendo… Il passato gli appariva come una fatica sprecata, e mentre le parole svanivano restava vivo soltanto il malessere d’una marcia, la pena di una scarpa stretta, la vergogna non confessata di prestarsi a qualche cosa che si sapeva inutile come un gioco infantile.
O la situazione delicata in cui può trovarsi un letterato: Uno scrittore, supponevo che avessero pensato, può cavar materia per la sua letteratura anche dalle sue disgrazie, sicché avevano fatto in modo che gli aspetti peggiori della Caserma dei Servi non m’apparissero. Come prima la spiegazione minacciosa che avevo trovato al mio isolamento mi aveva lusingato, ora mi lusingava quella sopravvenuta; sentivo l’orgoglio di possedere nella mia memoria un’arma.
E c’è pure il ritratto commovente di Alcide Cervi, padre dei sette fratelli Cervi fucilati a Reggio la mattina del 28 dicembre 1943, conosciuto durante la prigionia: Si capiva in lui un sentimento vigoroso della dignità civile e della libertà che soltanto può conservarla, che gli derivava dall’intimo e insieme alla consapevolezza di quella che è la più alta condizione umana.
Benedetti fu scrittore prestato al giornalismo. Disse di lui Nello Ajello: Benedetti non aveva mai smesso di dare ascolto al giovanile richiamo della letteratura… Già in una pagina di diario del febbraio 1960 egli definisce il giornalismo ‘la lunga distrazione di cui sono prigioniero’.
L’edizione da noi considerata è:
Arrigo Benedetti
Paura all’alba
Baldini&Castoldi
Non chiedetemi il perché, ma stavolta l’ho fatto con un grande del giornalismo, che nei suoi primi tentativi di scrittura si rivelò anche narratore di razza, senza per questo produrre opere di un certo rilievo programmatico: Arrigo Benedetti.
Lasciamo stare (almeno in questo contesto) la sua attività di giornalista (conobbe un po’ tutti, almeno quelli del giornalismo di grido e fondò anche riviste di un certo peso che tutt’ora, anche se con cambi di veduta differenti, resistono nelle nostre edicole).
Prendiamo invece la sua attività letteraria che prima di Paura all’alba propose I misteri della città (1941), Le donne fantastiche (1942) e Una donna all’inferno (1945). Anche Paura all’alba uscì nel 1945 e tra le altre cose, nella copertina principale, riportava un disegno di Renato Guttuso.
Fu proprio questo titolo ad aprirgli definitivamente la strada verso una letteratura che proponeva una attenta analisi del periodo fascista e a dargli anche una sistemazione letteraria di tutto rispetto.
Ed è qui che la mia ricerca ha rivelato risultati che in qualche modo lo disegnano diversamente: come per esempio l’immagine che Giose Rimanelli, nel suo libro Il mestiere del furbo, che crediamo anche fatto per riscattarsi dell’esito del suo libro repubblichino (Tiro al piccione) fa dello scrittore-giornalista ormai consegnato all’intelligenza ‘romana’… Nel salotto De Giorgi, più o meno, nasce l’equipe di Mercurio, e vi si incontrano Tecchi ed Antonello Trombadori, la Brin e Palma Bucarelli, Gorresio e Monelli, Gino De Sanctis e Arrigo benedetti, Agostino degli Espinosa e Alberto Mondadori (…) Fascisti e antifascisti si ritrovarono nelle due accoglienti stanze dell’attrice e a bere ottimo scotch, a compatirsi a vicenda e a stringere quelle alleanze che infine porteranno al compromesso generale.
Diversa invece l’allure di Oreste del Buono: Era troppo forte la tentazione di identificarlo in certi personaggi di sognatori e di passeggiatori a vuoto delle pagine della raccolta dei suoi racconti ne I misteri della città, pubblicata da Vallecchi a Firenze nel 1941, o del suo romanzo Le donne fantastiche, apparso presso Einaudi a Torino nel 1942. C’era tutta quell’inclinazione al culto di un segreto ineffabile che più tardi avrei ritrovato come una caratteristica dei lucchesi. Una rarefazione di parole e di presenza, un incanto sovrapponentesi a qualsiasi appello alla realtà.
Dunque giudizi francamente diversi per personaggi o intellettuali francamente diversi. Chiaro, le esperienze e gli avvenimenti che Benedetti riporta nel suo libro in qualche modo lo classificarono appieno. E’ in pratica la storia di un personaggio che prende via via coscienza di essere antifascista e dei furenti accadimenti che succedono dopo l’8 settembre del 1943.
Accadimenti che Benedetti subì veramente, tanto che il libro viene indicato come un’autobiografia abbastanza testimoniale (se qualcuno dovesse dirmi come qualificare il romanzo, potrei affermare che è un romanzo di quadri, cioè di una successione, a volte non diretta, ma egualmente significativa della storia e delle sue disperazioni).
C’è di tutto in quelle, nemmeno troppo vistose, pagine del libro. Come ad esempio la presa di coscienza del brutto periodo che si stava vivendo… Il passato gli appariva come una fatica sprecata, e mentre le parole svanivano restava vivo soltanto il malessere d’una marcia, la pena di una scarpa stretta, la vergogna non confessata di prestarsi a qualche cosa che si sapeva inutile come un gioco infantile.
O la situazione delicata in cui può trovarsi un letterato: Uno scrittore, supponevo che avessero pensato, può cavar materia per la sua letteratura anche dalle sue disgrazie, sicché avevano fatto in modo che gli aspetti peggiori della Caserma dei Servi non m’apparissero. Come prima la spiegazione minacciosa che avevo trovato al mio isolamento mi aveva lusingato, ora mi lusingava quella sopravvenuta; sentivo l’orgoglio di possedere nella mia memoria un’arma.
E c’è pure il ritratto commovente di Alcide Cervi, padre dei sette fratelli Cervi fucilati a Reggio la mattina del 28 dicembre 1943, conosciuto durante la prigionia: Si capiva in lui un sentimento vigoroso della dignità civile e della libertà che soltanto può conservarla, che gli derivava dall’intimo e insieme alla consapevolezza di quella che è la più alta condizione umana.
Benedetti fu scrittore prestato al giornalismo. Disse di lui Nello Ajello: Benedetti non aveva mai smesso di dare ascolto al giovanile richiamo della letteratura… Già in una pagina di diario del febbraio 1960 egli definisce il giornalismo ‘la lunga distrazione di cui sono prigioniero’.
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