RECENSIONI
Tommaso Giagni
L'estraneo
Einaudi Stile libero Big, Pag. 150 Euro 14,50
"Io sono un estraneo: sono tutto e sono niente"
È sempre interessante leggere romanzi di giovani che raccontano storie sulla loro generazione. Scoprire (finalmente!) un punto di vista fresco e doloroso su una società che sembra essersi dimenticata dei suoi figli. Le prime pagine dell'opera d'esordio di Tommaso Giagni (ventisette anni, Roma) ci gettano già all'interno di quella insanabile frattura che come una cicatrice trapassa le centocinquanta pagine del libro. Prima, sotto al titolo, la dedica alla memoria dei nonni, i padri dei suoi genitori, ovvero le differenti radici da cui proviene ognuno di noi; poi il prologo, che ci presenta una Roma spaccata a metà: la "Roma delle rovine", città da cartolina in cui la borghesia aspira a diventare ricca e l'aristocrazia lotta per mantenere il suo ruolo ai piani alti dei palazzi da cui si gode la vista dei monumenti. E, a quaranta minuti da lì, la "Roma di Quaresima", periferica, dei quartieri, delle borgate, dell'abusivismo e dell'abbandono. Il nodo centrale del romanzo è già tutto sotto i nostri occhi, non ci resta che vivere con il protagonista questa scissione, questa confusione dovuta alla scalata sociale del padre che, grazie a un lavoro da portinaio rimediato a metà anni Ottanta, era riuscito ad abbandonare il quartiere, crescendo i suoi figli in un ambiente che, per sua natura, rinnega le vere radici della famiglia. Il romanzo comincia proprio con la fuga del figlio da questa Roma paterna delle rovine. Il protagonista percorre in auto il raccordo anulare, purgatorio che separa le due Roma, tratto di strada che per sua configurazione rende bene l'idea del girare a vuoto in attesa dell'uscita giusta, stato d'animo tipico della generazione dei nati a metà degli anni Ottanta. Il titolo del libro può trarre in inganno, ricordando L'étranger di Camus, ma tra i due protagonisti c'è una differenza fondamentale: l'estraneità qui è una condizione dalla quale si cerca di fuggire, un'identità stabile e la serenità sono obiettivi di costante ricerca per il protagonista. Qui non ci sono estraneità e insensibilità alla vita a prescindere, ma vi è un'ossessionata ricerca delle proprie radici, del provare a essere autenticamente se stessi. Giagni passa in rassegna una serie di rituali e abitudini che il protagonista esperisce sulla propria pelle, la prosa è attenta a descrivere con intelligenza gli scenari, i miti e i costumi della Roma periferica, facendo passare un po' in secondo piano il ritmo e l'azione, e lasciando spazio al flusso interiore costellato dai costanti dubbi esistenziali del protagonista. Il suo auto-esilio dalla Roma-bene lo porta a una graduale mutazione, a una contaminazione che riguarda il corpo e il linguaggio, ovvero le forme esteriori con cui si rapporta con gli altri. In questa girandola di location della contemporaneità vediamo il giovane vagare sulle ceneri delle defunte speranze pasoliniane, tra corpi palestrati e vessilli fascisti, in una Roma che ha molto a che fare con quella descritta da I cani nelle loro canzoni (non a caso Niccolò Contessa, voce e mente della band, ha un anno in meno di Giagni) e che racconta una generazione di ragazzi che vive un perenne senso di inadeguatezza, in un mondo dove il distacco tra simbolismo-apparenza e vita vera è quasi insanabile. L'estraneo si scontrerà con la borgata, vivrà fianco a fianco di chi lì ci è nato per davvero, tenterà di "sporcarsi le mani" con la vita vera, fino a capire che la sua non potrà che essere la vita di un equilibrista sul filo del raccordo che unisce i due volti di Roma: eternamente sospeso, a guardare gli altri avere un posto nel mondo, qualche metro sotto di lui. Il romanzo comincia molto bene, si inceppa un po' nella parte centrale, per sfociare in un finale rabbioso, disilluso e, soprattutto, sincero. Giagni fonda la sua narrazione sulla necessità di uno sguardo altro che ci rifletta, utile per capire chi siamo veramente. Anche se, quello che troveremo negli occhi altrui, non è detto ci renda meno spaesati e meno estranei alla realtà. D'altronde non tutti siamo capaci di interpretare ruoli nel vuoto identitario che spesso ci avvolge in quel periodo che va dall'adolescenza all'età adulta. L'estraneo ci ricorda che non siamo gli unici a cercare con faticosa disperazione un posto in questo mondo.
di Andrea Ferri
È sempre interessante leggere romanzi di giovani che raccontano storie sulla loro generazione. Scoprire (finalmente!) un punto di vista fresco e doloroso su una società che sembra essersi dimenticata dei suoi figli. Le prime pagine dell'opera d'esordio di Tommaso Giagni (ventisette anni, Roma) ci gettano già all'interno di quella insanabile frattura che come una cicatrice trapassa le centocinquanta pagine del libro. Prima, sotto al titolo, la dedica alla memoria dei nonni, i padri dei suoi genitori, ovvero le differenti radici da cui proviene ognuno di noi; poi il prologo, che ci presenta una Roma spaccata a metà: la "Roma delle rovine", città da cartolina in cui la borghesia aspira a diventare ricca e l'aristocrazia lotta per mantenere il suo ruolo ai piani alti dei palazzi da cui si gode la vista dei monumenti. E, a quaranta minuti da lì, la "Roma di Quaresima", periferica, dei quartieri, delle borgate, dell'abusivismo e dell'abbandono. Il nodo centrale del romanzo è già tutto sotto i nostri occhi, non ci resta che vivere con il protagonista questa scissione, questa confusione dovuta alla scalata sociale del padre che, grazie a un lavoro da portinaio rimediato a metà anni Ottanta, era riuscito ad abbandonare il quartiere, crescendo i suoi figli in un ambiente che, per sua natura, rinnega le vere radici della famiglia. Il romanzo comincia proprio con la fuga del figlio da questa Roma paterna delle rovine. Il protagonista percorre in auto il raccordo anulare, purgatorio che separa le due Roma, tratto di strada che per sua configurazione rende bene l'idea del girare a vuoto in attesa dell'uscita giusta, stato d'animo tipico della generazione dei nati a metà degli anni Ottanta. Il titolo del libro può trarre in inganno, ricordando L'étranger di Camus, ma tra i due protagonisti c'è una differenza fondamentale: l'estraneità qui è una condizione dalla quale si cerca di fuggire, un'identità stabile e la serenità sono obiettivi di costante ricerca per il protagonista. Qui non ci sono estraneità e insensibilità alla vita a prescindere, ma vi è un'ossessionata ricerca delle proprie radici, del provare a essere autenticamente se stessi. Giagni passa in rassegna una serie di rituali e abitudini che il protagonista esperisce sulla propria pelle, la prosa è attenta a descrivere con intelligenza gli scenari, i miti e i costumi della Roma periferica, facendo passare un po' in secondo piano il ritmo e l'azione, e lasciando spazio al flusso interiore costellato dai costanti dubbi esistenziali del protagonista. Il suo auto-esilio dalla Roma-bene lo porta a una graduale mutazione, a una contaminazione che riguarda il corpo e il linguaggio, ovvero le forme esteriori con cui si rapporta con gli altri. In questa girandola di location della contemporaneità vediamo il giovane vagare sulle ceneri delle defunte speranze pasoliniane, tra corpi palestrati e vessilli fascisti, in una Roma che ha molto a che fare con quella descritta da I cani nelle loro canzoni (non a caso Niccolò Contessa, voce e mente della band, ha un anno in meno di Giagni) e che racconta una generazione di ragazzi che vive un perenne senso di inadeguatezza, in un mondo dove il distacco tra simbolismo-apparenza e vita vera è quasi insanabile. L'estraneo si scontrerà con la borgata, vivrà fianco a fianco di chi lì ci è nato per davvero, tenterà di "sporcarsi le mani" con la vita vera, fino a capire che la sua non potrà che essere la vita di un equilibrista sul filo del raccordo che unisce i due volti di Roma: eternamente sospeso, a guardare gli altri avere un posto nel mondo, qualche metro sotto di lui. Il romanzo comincia molto bene, si inceppa un po' nella parte centrale, per sfociare in un finale rabbioso, disilluso e, soprattutto, sincero. Giagni fonda la sua narrazione sulla necessità di uno sguardo altro che ci rifletta, utile per capire chi siamo veramente. Anche se, quello che troveremo negli occhi altrui, non è detto ci renda meno spaesati e meno estranei alla realtà. D'altronde non tutti siamo capaci di interpretare ruoli nel vuoto identitario che spesso ci avvolge in quel periodo che va dall'adolescenza all'età adulta. L'estraneo ci ricorda che non siamo gli unici a cercare con faticosa disperazione un posto in questo mondo.
di Andrea Ferri
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