RECENSIONI
G.K. Chesterton
L’età vittoriana nella letteratura.
Adelphi, Traduzione di Paolo Dilonardo, Pag. 211 Euro 14,00
Nonostante le mille e una cosa che Chesterton scrisse durante la sua vita, e non parliamo di romanzi o polizieschi, mai avremmo pensato (almeno io no) che ci avrebbe allietato con una storia della letteratura vittoriana.
A dir la verità non si tratta di una storia, ma di una libera e personale esposizione dei punti di maggior interesse di quel periodo e che ottenne invece, quando uscì nel mercato inglese, un immenso successo di pubblico.
Lui non rinuncia a quello che di più grande e maestoso ebbe nell’arte dello scrivere: la capacità di dire qualsiasi cosa, dalla scemenze (poche in verità) alla verità più insolente con una maestria ed una capacità al di là di ogni limite. Come a dire che gioca col serio, ma nello stesso momento ha la capacità di rivoltare tutto e prendere in giro. E scommetto che pochi riescono a farlo.
E di fronte ad una letteratura come quella vittoriana (per alcuni versi non facile, meglio, di non facile acquisizione) lui non si pone scrupoli e sentenzia: Il romanzo vittoriano fu qualcosa di squisitamente vittoriano, del tutto unico e consono a una sorta di confortevolezza tipica del Paese e dell’epoca: Ma il romanzo in quanto tale, anche se non esclusivamente vittoriano, è per lo più moderno. (…) Mi limiterò semplicemente a dire, perciò, che quando parlo di romanzo intendo una narrazione fittizia (quasi invariabilmente, ma non necessariamente in prosa) in cui l’essenziale è che la storia non sia raccontata in funzione della sua nuda incisività aneddotica, o dei personaggi e delle visioni marginali che possono finirvi impigliati dentro, ma in funzione di uno studio delle differenze tra gli esseri umani.
Semplice direi, tanto che questa tesi la si può applicare non solo alla letteratura vittoriana, ma alla letteratura in genere (e Chesterton lo sapeva, altro che se lo sapeva). Così tra un qualcosa che per istinto era poco propenso al sorriso e che il romanzo dell’Ottocento fu femminile (detto da un maschio), o che resta il fatto strano che l’unico genere di sovrannaturale che i vittoriani si permisero di immaginare fu il sovrannaturale triste, Chesterton offre una rapida disamina del genere, non tralasciando nulla e nessuno (un grazie particolare alla definizione di classico di un autore come Wilkie Collins, l’autore tra l’altro de La pietra di luna) che ci porta a riconsiderare nei tempi e nei modi giusti tutta la materia in esame.
E non credete a quelli che dicono che per essere critico non bisogna lasciarsi andare alla tentazione di scrivere altro (e che altro!).
di Alfredo Ronci
A dir la verità non si tratta di una storia, ma di una libera e personale esposizione dei punti di maggior interesse di quel periodo e che ottenne invece, quando uscì nel mercato inglese, un immenso successo di pubblico.
Lui non rinuncia a quello che di più grande e maestoso ebbe nell’arte dello scrivere: la capacità di dire qualsiasi cosa, dalla scemenze (poche in verità) alla verità più insolente con una maestria ed una capacità al di là di ogni limite. Come a dire che gioca col serio, ma nello stesso momento ha la capacità di rivoltare tutto e prendere in giro. E scommetto che pochi riescono a farlo.
E di fronte ad una letteratura come quella vittoriana (per alcuni versi non facile, meglio, di non facile acquisizione) lui non si pone scrupoli e sentenzia: Il romanzo vittoriano fu qualcosa di squisitamente vittoriano, del tutto unico e consono a una sorta di confortevolezza tipica del Paese e dell’epoca: Ma il romanzo in quanto tale, anche se non esclusivamente vittoriano, è per lo più moderno. (…) Mi limiterò semplicemente a dire, perciò, che quando parlo di romanzo intendo una narrazione fittizia (quasi invariabilmente, ma non necessariamente in prosa) in cui l’essenziale è che la storia non sia raccontata in funzione della sua nuda incisività aneddotica, o dei personaggi e delle visioni marginali che possono finirvi impigliati dentro, ma in funzione di uno studio delle differenze tra gli esseri umani.
Semplice direi, tanto che questa tesi la si può applicare non solo alla letteratura vittoriana, ma alla letteratura in genere (e Chesterton lo sapeva, altro che se lo sapeva). Così tra un qualcosa che per istinto era poco propenso al sorriso e che il romanzo dell’Ottocento fu femminile (detto da un maschio), o che resta il fatto strano che l’unico genere di sovrannaturale che i vittoriani si permisero di immaginare fu il sovrannaturale triste, Chesterton offre una rapida disamina del genere, non tralasciando nulla e nessuno (un grazie particolare alla definizione di classico di un autore come Wilkie Collins, l’autore tra l’altro de La pietra di luna) che ci porta a riconsiderare nei tempi e nei modi giusti tutta la materia in esame.
E non credete a quelli che dicono che per essere critico non bisogna lasciarsi andare alla tentazione di scrivere altro (e che altro!).
di Alfredo Ronci
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