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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Olav Hergel

L'immigrato

Iperborea, Pag. 450 Euro 17,50
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Siamo in Danimarca, terra prospera e laboriosa, ponte ideale tra la Germania e l'altromondo iperboreo. Siamo in Danimarca e ci affezioniamo al giovane immigrato del titolo, Zaki, che si matura a pieni voti senza risparmiare stoccate all'ipocrisia della classe politica e della mentalità locale. Anzi, forse proprio grazie alla sua lucida sfuriata e alla sensibilità della professoressa – un po' dalla penna rossa, diciamo squisitamente romanzesca – che si trova in commissione. Una bella sera di giugno Zaki e compagnia vogliono andare in discoteca ma s'imbattono in un buttafuori bovino e razzista, che li esaspera... finché non ci scappa il morto. Nel senso che il buttafuori non torna più a casa. È questa la miccia del secondo, poderoso romanzo di Olav Hergel, giornalista senza peli sulla lingua come le croniste femminili che ama inserire nelle trame. Recensendo la sua prima fatica Il fuggitivo, scrissi che "andrebbe letto e studiato all'università, in qualsiasi corso di giornalismo o più in generale di Scienze della Comunicazione", in quanto, camuffato da romanzo, altro non era che "un saggio sul quarto e sul quinto potere ai tempi della guerra in Iraq". Il senso di questa autocitazione altrimenti demenziale consiste nel fatto che Olav Hergel, con L'immigrato, ha riscritto il suo primo romanzo mantenendone intatto impianto, spirito e obiettivi – oltre che la foliazione! – e limitandosi a cambiare nomi e provenienza dei personaggi. Un cambio minimo, se registriamo che la giornalista de Il fuggitivo si chiamava Rikke Lyngdal e quella de L'immigrato Rikke Lyngvig. Il "Paese straniero" non è più l'Iraq bensì il Marocco, ma il grimaldello della narrazione è lo stesso, vale a dire l'impatto della gioventù migrante in una nazione ricca, sospettosa e campanilista, governata dal ruffiano di turno e informata da un giornalismo spesso ancor più colpevole dei politici nel raccontare la realtà con malizia e magnifiche omissioni. Nell'imbastire tutto questo, Hergel si conferma un maestro: inventa presidenti del consiglio di sana pianta (Christensen e Holm) e sventra senza pietà la gallina d'oro dell'Informazione, mostrandone le intestina piene di merda. E lo fa con un obiettivo nobile, di fatto raggiunto: tematizzare il problema dell'immigrazione non dal punto di vista di chi teme l'arrivo di orde di barbari, bensì da quello di chi si trasferisce in un altro Paese ed è costretto a sentirsi immigrato per sempre, a causa di legislazioni miopi e punitive. Raggiunto perché i romanzi di Hergel hanno scosso l'opinione pubblica e messo la politica all'angolo, costringendola ad ammorbidire le leggi vigenti. In definitiva, L'immigrato può suscitare due reazioni. Chi non ha letto Il fuggitivo lo troverà molto probabilmente eccellente, magari un po' lungo. Chi invece ha letto e apprezzato l'esordio letterario di Hergel, noterà – oltre al passaggio in sede di traduzione da Eva Kampmann a Ingrid Basso – ben poche differenze rispetto al primo libro. Certo, stavolta uno dei personaggi cita addirittura una bella frase del premio Nobel 1944 Johannes Vilhelm Jensen: "Il giornalismo ai nostri è quasi l'unica attività che si conviene a un uomo. È il passatempo che più si avvicina alla guerra e ai viaggi d'esplorazione in mare. È l'attività dei moderni lanzichenecchi; si scrive e si viaggia" (pag. 430). E il libro funziona, nonostante un avvio farraginoso. Ma quando si legge, nella nota conclusiva, la medesima citazione che chiosava Il fuggitivo ("Qualsiasi somiglianza con persone, istituzioni e media esistenti, per dirla con Heinrich Böll, non è né intenzionale né casuale, ma inevitabile") si ha davvero l'impressione che Hergel, come il suo conterraneo Lars von Trier, stia realizzando una trilogia danese – invece che americana – mettendo in scena sempre le stesse idee, e con la stessa canzone che scorre sui titoli di coda. Solo che invece degli Young Americans abbiamo gli Young Immigrants.

di Simone Buttazzi


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