CLASSICI
Alfredo Ronci
L’intellettuale che fa i conti con l’infanzia: “Tragedia dell’infanzia” di Alberto Savinio.
Scriveva tempo fa Walter Pedullà: Alberto Savinio fu scrittore, musicista, pittore, drammaturgo e regista teatrale. Scrisse racconti, poesie, romanzi, saggi, testi teatrali, libri di viaggi, articoli per riviste e giornali, recensioni di letteratura, teatro, cinema, arti figurative. Ogni genere letterario, quasi tutte le arti: passando rapidamente dall’uno all’altro o mescolandoli. Almeno quattro lingue: il greco, il tedesco, il francese e l’italiano, con forte interesse per i dialetti. Tradusse dal greco antico e dal francese.
Sembra chiaro che con un profilo del genere, mai e poi mai nessuno avrebbe mosso un dito nei confronti del Savinio (ricordiamolo qui come anche fratello del pittore De Chirico). Infatti nessuno si azzardò, se non lui stesso, nella sua insistente disanima (chiamiamola così) dell’infanzia, anzi, della paura dell’infanzia.
Nella prefazione a Tragedia dell’infanzia, che lo scrittore cominciò a formularla negli anni ’20, ma che fu pubblicata la prima volta nel 1937 per le Edizioni della Cometa e successivamente nel 1945 per Sansoni, si diceva: Una volta io scrissi: “Quello che ho fatto non m’interessa più, solo quello che non h ancora fatto mi interessa”. Su questo punto non ho cambiato. Ma oltre che non mi interessa più, quello che ho già fatto mi faceva paura. Su questo punti ho cambiato.
Perché avevo paura? Solitamente è per una ragione morale che noi abbiamo paura di guardarci dietro le spalle. Per non essere colpiti d’immobilità. (…) Ma non per questa ragione io… Era piuttosto un effetto di giovinezza. Era la fretta di avanzare. Era il timore che il mio viaggio potesse essere ritardato. Era l’ansia di andare sempre più lontano.
Tragedia dell’infanzia è una sorta di viaggio, una specie di recupero infantile che i genitori attuano nei confronti di un fanciullo che è stato male e che, secondo un medico (il dottor Saltas, il burbero, lo scontroso, il terribile Saltas…) necessiterebbe di spazi ariosi e marini.
Ecco dunque il giovine Savinio salpare per mari e innamorarsi di volta in volta di situazioni, di volti e anche di oggetti inanimati che sotto i desideri e le aspirazioni dell’infante assumono anche precise connotazioni sentimentali… L’occhio verde di Andromeda brillava in cima all’albero maestro. (…) Essa mostrando di non se ne dar pensiero, a me non spettava provvedere ai mezzi di riparo. Vada come vada! Ma che un mostro rincorresse la nave galoppando sul mare come un montone sul prato, nessuno me lo toglieva dalla testa.
Ma il bambino, come ha detto qualcuno, odia e ama. Ama tutto ciò che lo emoziona, lo rallegra e lo rattrista. Gli è estranea l’indifferenza. Ma sa anche di odiare. Odia soprattutto la gente che lo circonda (Passano le voci: mi circondano ma non mi sfiorano. Chiari ma incomprensibili suoni di un linguaggio dimenticato. E’ possibile che gente così grave e d’età parli per suoni vacui?) la famiglia, meglio ancora, l’educazione impartita dalla famiglia: L’educazione è la prima forma di reazione nella quale l’uomo s’imbatte al suo esordio nel mondo. Educare, “condurre”, ha perduto per sempre la sua ragione etimologica. Educazione, sotto l’ipocrita maschera della bontà e della “necessità”, non è se non la sistematica, scientifica, legale diminuzione dell’uomo, la castrazione completa, l’evirazione, la sterilizzazione dell’individuo, in vista della sua ammissione nel “consorzio”.
Qualcuno però ha visto, in questa condita ammissione della ipocrita educazione, la lezione di Freud. L’apprendistato sentimentale e sessuale di un bambino, a partire dal complesso edipico. Da una parte c’è un padre severo e autoritario e dall’altra una madre che non fa assolutamente mancare l’affetto, anzi l’amore, al figlio. E il figlio se ne rende conto: La mamma mi fece rientrare la manina sotto le coperte. Era impaziente di chiudere il discorso. (…) Mi chiusi nella coperta come un frutto nella buccia (…) Le mamme non sospettano neppure quali giudici esse hanno nei propri figli.
Anche se nelle esternazioni e nelle impressioni che la vita, anzi, che l’adolescenza, gli offre, il bambino così esplicita: Col babbo? Con la mamma? Meno che meno. Salvo che nelle comuni pratiche della vita, ogni nostro rapporto è impossibile.
Savinio non ha cambiato idea su quel mondo: i genitori sono sempre reazionari. Lo dice lui stesso, in forme diverse, nell’introduzione a Tragedia dell’infanzia, ma anche nelle successive esposizioni. Ricordiamo che il libro, partorito nei primi anni venti del novecento, fu pubblicato soltanto nel 1937. Nel 1941 arriva l’altro suo libro dedicato alla giovinezza, Infanzia di Nivasio Dolcemare, che completerà queste sue lucide considerazioni.
L’edizione da noi considerata è:
Alberto Savinio
Tragedia dell’infanzia
Einaudi
Sembra chiaro che con un profilo del genere, mai e poi mai nessuno avrebbe mosso un dito nei confronti del Savinio (ricordiamolo qui come anche fratello del pittore De Chirico). Infatti nessuno si azzardò, se non lui stesso, nella sua insistente disanima (chiamiamola così) dell’infanzia, anzi, della paura dell’infanzia.
Nella prefazione a Tragedia dell’infanzia, che lo scrittore cominciò a formularla negli anni ’20, ma che fu pubblicata la prima volta nel 1937 per le Edizioni della Cometa e successivamente nel 1945 per Sansoni, si diceva: Una volta io scrissi: “Quello che ho fatto non m’interessa più, solo quello che non h ancora fatto mi interessa”. Su questo punto non ho cambiato. Ma oltre che non mi interessa più, quello che ho già fatto mi faceva paura. Su questo punti ho cambiato.
Perché avevo paura? Solitamente è per una ragione morale che noi abbiamo paura di guardarci dietro le spalle. Per non essere colpiti d’immobilità. (…) Ma non per questa ragione io… Era piuttosto un effetto di giovinezza. Era la fretta di avanzare. Era il timore che il mio viaggio potesse essere ritardato. Era l’ansia di andare sempre più lontano.
Tragedia dell’infanzia è una sorta di viaggio, una specie di recupero infantile che i genitori attuano nei confronti di un fanciullo che è stato male e che, secondo un medico (il dottor Saltas, il burbero, lo scontroso, il terribile Saltas…) necessiterebbe di spazi ariosi e marini.
Ecco dunque il giovine Savinio salpare per mari e innamorarsi di volta in volta di situazioni, di volti e anche di oggetti inanimati che sotto i desideri e le aspirazioni dell’infante assumono anche precise connotazioni sentimentali… L’occhio verde di Andromeda brillava in cima all’albero maestro. (…) Essa mostrando di non se ne dar pensiero, a me non spettava provvedere ai mezzi di riparo. Vada come vada! Ma che un mostro rincorresse la nave galoppando sul mare come un montone sul prato, nessuno me lo toglieva dalla testa.
Ma il bambino, come ha detto qualcuno, odia e ama. Ama tutto ciò che lo emoziona, lo rallegra e lo rattrista. Gli è estranea l’indifferenza. Ma sa anche di odiare. Odia soprattutto la gente che lo circonda (Passano le voci: mi circondano ma non mi sfiorano. Chiari ma incomprensibili suoni di un linguaggio dimenticato. E’ possibile che gente così grave e d’età parli per suoni vacui?) la famiglia, meglio ancora, l’educazione impartita dalla famiglia: L’educazione è la prima forma di reazione nella quale l’uomo s’imbatte al suo esordio nel mondo. Educare, “condurre”, ha perduto per sempre la sua ragione etimologica. Educazione, sotto l’ipocrita maschera della bontà e della “necessità”, non è se non la sistematica, scientifica, legale diminuzione dell’uomo, la castrazione completa, l’evirazione, la sterilizzazione dell’individuo, in vista della sua ammissione nel “consorzio”.
Qualcuno però ha visto, in questa condita ammissione della ipocrita educazione, la lezione di Freud. L’apprendistato sentimentale e sessuale di un bambino, a partire dal complesso edipico. Da una parte c’è un padre severo e autoritario e dall’altra una madre che non fa assolutamente mancare l’affetto, anzi l’amore, al figlio. E il figlio se ne rende conto: La mamma mi fece rientrare la manina sotto le coperte. Era impaziente di chiudere il discorso. (…) Mi chiusi nella coperta come un frutto nella buccia (…) Le mamme non sospettano neppure quali giudici esse hanno nei propri figli.
Anche se nelle esternazioni e nelle impressioni che la vita, anzi, che l’adolescenza, gli offre, il bambino così esplicita: Col babbo? Con la mamma? Meno che meno. Salvo che nelle comuni pratiche della vita, ogni nostro rapporto è impossibile.
Savinio non ha cambiato idea su quel mondo: i genitori sono sempre reazionari. Lo dice lui stesso, in forme diverse, nell’introduzione a Tragedia dell’infanzia, ma anche nelle successive esposizioni. Ricordiamo che il libro, partorito nei primi anni venti del novecento, fu pubblicato soltanto nel 1937. Nel 1941 arriva l’altro suo libro dedicato alla giovinezza, Infanzia di Nivasio Dolcemare, che completerà queste sue lucide considerazioni.
L’edizione da noi considerata è:
Alberto Savinio
Tragedia dell’infanzia
Einaudi
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